Quando Jorge Baron Biza (1942 – 2001) pubblica “Il deserto” (che torna in una nuova edizione) è un cinquantenne alla deriva, povero e devastato dall’alcol. Lo scrittore argentino (che si dimostra abilissimo e attento alla grande tradizione) racconta la tragedia della madre (poi, come lei, morirà suicida). Il libro è un confronto con la carne, e tutto ciò che resta è la propria nudità senza difese (“la mia storia eterogena e grottesca”)

C’è un punto cruciale nella storia largamente autobiografica che ci viene raccontata da Jorge Baron Biza (22 maggio 1942 – 9 settembre 2001), a partire dall’evento destinato a segnare la breve e tormentata esistenza del narratore: ed è quando il protagonista scopre, nel volto della madre devastato dalle ustioni, come “l’impossibilità di vedere metafore nella sua carne diventasse per me impossibilità di pensare metafore per i miei sentimenti”.

Qui narratore e autore tendono a sovrapporsi, nonostante la richiesta che viene fatta al lettore di avvicinarsi al romanzo “senza tenere conto dei legami familiari”: perché gran parte di quel che si racconta, escluso forse un episodio altamente simbolico che in qualche modo chiude il cerchio di un’ossessione, è veramente accaduto.

il deserto Jorge Baron Biza

Quando Baron Biza pubblica Il deserto (La Nuova frontiera) è un cinquantenne alla deriva, devastato dall’alcol, afflitto dall’asma, che vive a Cordova, città d’origine della famiglia paterna, tra lavori editoriali, un po’ di Università e qualche collaborazione giornalistica, il tutto all’insegna di una precariato che lo rende sempre più povero, proprio lui che è figlio di un grande proprietario terriero la cui fortuna è stata dissipata in avventure politiche e lussi sfrenati.

Il padre si è suicidato dopo aver sfregiato col vetriolo il volto della madre, alla fine di un incontro con i rispettivi legali per concordare il divorzio. La madre, una nota figura politica, antiperonista come del resto l’ex marito e che ha conosciuto anche il carcere, dopo lunghe e dolorose cure per recuperare le proprie fattezze si ucciderà a sua volta gettandosi dalla finestra della casa dove aveva conservato gelosamente le memorie e gli oggetti dello sciagurato coniuge – come del resto farà anni dopo anche la figlia Maria Cristina, sorella minore di Jorge.

“Un grande flusso di compassione mi investì quando si verificò il primo suicidio in famiglia – scrisse Baron Biza per presentare il suo libro, uscito quasi alla macchia, per un piccolo editore, nel 1998 -. Quando accadde il secondo, quel flusso si trasformò in un oceano agitato e senza orizzonte. Al terzo, ogni volta che mettevo piede in una stanza posta al di sopra del terzo piano le persone si affrettavano a chiudere le finestre. In scene come questa è rimasta imprigionata la mia solitudine“.  E il suo destino: perché anche lui, nel 2001 si getterà da un balcone, lasciando in vista duemila pesos, probabilmente per le spese del funerale. È un evento che in qualche modo aveva già scritto, che si intuisce almeno come una minaccia impronunciata nel suo tormentatissimo romanzo.

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Il deserto racconta infatti la tragedia della madre, o meglio si direbbe della sua carne: da quando viene sfigurata a quando, dopo un anno in Argentina e venti mesi in una clinica milanese specializzata in terapie ricostruttive, torna a casa. In parallelo, per lei e intorno a lei, si dipana la vita assai precaria del figlio che la accompagna e l’assiste, la veglia, ne spia i cambiamenti e il ribollire di rovine sul volto scarnificato, ma nello stesso si perde ubriacandosi tra le bettole di una Milano nebbiosa; o vagola per l’Italia vivendo di espedienti.

Lo spunto di trama, l’unica e assai dosata svolta narrativa, è nella sua relazione con un prostituta che infine si innamora di lui, provocando però una reazione imprevedibile e che ripiomba il protagonista, Mario, nell’orrore di quella violenza famigliare riconosciuta solo in quel momento, si direbbe, come scena primaria. Con modalità diverse ma non solo a livello simbolico, senza saper perché ripete il gesto del padre.

Per il resto, il libro è un confronto con la carne: carne che viene descritta minutamente nel suo sfacelo come se in realtà avesse una sorta di vita autonoma, incomprensibile, autonoma: “Le prime settimane niente fu stabile nella sua carne. Mentre alcuni settori della faccia si svuotavano, altri si gonfiavano come frutti incerti che sembravano nascere già maturi e promettevano un succo aspirato dai vuoti cavernosi che cominciavano ad aprirsi nei pressi di quelle strane fioriture”. La sfida è raccontarla, questa carne che diviene estranea e autonoma, trovare le parole per qualcosa che a tutta prima appare indicibile, trovare linguaggi.

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Il deserto è un romanzo di difficile traduzione (firmata da Giulia Maneri) proprio perché in questo inseguimento delle parole la scrittura si declina nei termini di un accentuato plurilinguismo, con calchi sul tedesco o sull’inglese – o sull’italiano – senza contare il cocoliche (il dialetto degli immigrati italiani); e nello stesso tempo ha una scrittura di estrema pulizia nel raccontarci un dolore sempre impronunciato, che si accampa sullo sfondo.

Quando uscì in Argentina venne accolto con grande interesse critico, ma non valse all’autore un successo duraturo. Restò un libro unico. Da noi La Nuova Frontiera lo ha già proposto una decina d’anni fa: ora lo manda in libreria con una nuova grafica e l’ampio saggio del critico argentino Alan Pauls.

È un ritorno significativo, perché Baron Biza è uno scrittore abilissimo; costruisce le sue scene (le scene, ricordava Kundera, sono l’essenza del romanzo moderno) con un occhio alla grande tradizione, senza epigonismi. Il professor Calcaterra, primario della clinica milanese che “aveva una faccia sintetica” (perché “la bocca, il naso e le sopracciglia si risolvevano in un unico tratto economico”), non sembra privo di parentele con il collega Friedrich Jessen, direttore del sanatorio della Montagna magica, considerato il tono tra spiritualistico e militaresco nell’affrontare la malattia.

Non solo: un pezzo di bravura dove vengono incastonati l’uno nell’altro due differenti discorsi rendendoli entrambi assurdi, come è quello sulla messa nella cappella della clinica milanese, rimanda strutturalmente a un celebre montaggio di Flaubert in Madame Bovary. Là Emma e Rodolphe tubano durante i Comizi agricoli a Yonville-l’Abbaye, (una festa dell’agricoltura con distribuzione di premi) e Flaubert alterna le loro battuta di dialogo a brandelli di discorsi ufficiali, come se il lettore ascoltasse ora gli uni ora gli altri. Qui invece un gruppo di giovani pazienti in attesa di rifarsi il naso (le Nasone, le chiama Mario) si dedica a frivolissime chiacchiere sul sottofondo della predica, rendendola nello stesso tempo cupa e assurda almeno quanto lo è il loro buonumore.

Baron Biza, che presentandosi ai lettori aveva ricordato di essersi esercitato in traduzioni da Mann e Proust, sicuramente conosceva bene anche quel passo e non ha resistito all’idea di renderlo, da ironico che era, terribile, comico e funereo (perché il prete parla, ovviamente, della carne: che, dice, “non serve a niente”). È uno dei momenti culminanti della sua epopea del male. E della idea ossessiva “che il male non fosse qualcosa alla portata della volontà, che se mai colpiva l’uomo (con minor frequenza di quanto il suo orgoglio supponeva) era nella stessa forma che assume in natura: involontario, totale e assente, come nei deserti rocciosi”. Con questa modalità ha colpito lui, in questo caso il personaggio più che lo scrittore.

Il caos è forse preferibile al deserto, anche se in esso non se ne rintraccia alcun senso; ma tutto ciò che resta, scrive Mario/Baron Biza, è la propria nudità senza difese, “la mia storia eterogena e grottesca”.

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