“Io Sono: Diario di tutte le volte che ho cambiato pelle” porta per la prima volta in libreria le parole del rapper Ghemon. Una confessione consapevole, un’autobiografia dettagliata, che non lascia spazio a pudori, in cui il cantante non ha risparmiato nulla, compresa la difficile esperienza con la depressione… – L’intervista de ilLibraio.it

Consapevolezza è la parola che Ghemon (nella foto di Jacopo Ardolino, ndr) ripete più volte per parlare del suo libro e di sé stesso, un vero mantra. La tendenza all’introspezione e alla riflessione sono sempre stati il tratto distintivo di Ghemon, il rapper “diverso” di Avellino, che non si è mai accontentato del recinto delimitato del rap che gli altri gli hanno costruito intorno. La voglia di sperimentare con arrangiamenti, l’esigenza di una band con cui suonare live, la sperimentazione vocale sono gli elementi che da quel mondo lo hanno portato sul palco dello scorso Festival di Sanremo, insieme a Diodato e Roy Paci e che spera di calcare da solo come cantautore.

La ricerca della voce è una metafora, ma anche il conflitto reale che contraddistingue l’artista Ghemon, come la depressione lo è per Gianluca Picariello, l’uomo dietro lo pseudonimo. Entrambi gli aspetti e tutto quello che ci è capitato in mezzo sono dentro questo volume, un diario e una confessione per raccontare 35 anni di vita e dieci di carriera in continua ascesa.

Il libro arriva pochi mesi dopo l’uscita del disco Mezzanotte, che racconta i momenti più bui vissuti nell’ultimo anno: la fine di una relazione importante, la depressione e una crisi artistica che si sono riversate nel suo lavoro, diventando uno degli album più acclamati dalla critica e atteso dai fan.

“Il libro è successo per caso, ma non proprio”, spiega a ilLibraio.it, “è arrivata anche una fase della mia vita dove, probabilmente, ero consapevole di tante cose che mi erano successe. Poi, in generale, nei dischi ho sempre parlato apertamente: da un lato ti mette in posizioni scomode, ma in fondo è giusto partire da ciò che si conosce meglio”.

Ghemon

Il momento era propizio per parlare di sé e a determinarlo è stato un incontro fortunato. Patrizia Segre, editor di HarperCollins Italia, ha avvicinato il cantante con una proposta, colpita da un suo intervento in un panel a Milano, in cui ha raccontato pubblicamente del suo calvario con la depressione: “Il flusso della scrittura è stato molto libero, non c’è stata grande differenza con la scrittura musicale, forse perché il rap è molto discorsivo e verboso. Me la sono goduta, ma avevo ansia di non riuscire a raccontare abbastanza e alla fine mi son reso conto di aver scritto fin troppo. Passare sopra certe cose mi ha aiutato a fare ordine, a livello terapeutico non stato così male…”.

Dall’infanzia al successo: un percorso non lineare, pieno di svolte e cambi di marcia, ma soprattutto di inadeguatezza. Arrivato a una di quelle svolte, Ghemon si accorge che il rap non lo rappresenta più completamente e deve intraprendere lo studio del canto per potersi perfezionare come interprete. Scrive a un certo punto: “Del rap non voglio nemmeno sentire parlare. La frattura tra me e me è diventata insanabile e le marce che sto innestando nell’ambito del canto mi motivano a coltivare quel terreno, nonostante non abbia garanzie di riuscita”. La ricerca della “voce”, sofferta, è la parte dove l’artista si mostra più fragile, in questa continua tensione alla perfezione, e si mette a nudo davvero. “A livello sonoro, quando l’errore passa da uno strumento, la sensazione di fallibilità è inferiore rispetto alla tua stessa voce, perché proviene da te e lo strumento sei tu. Crescendo con il rap, che punta alla massimizzazione di te stesso, ho dovuto subito cercare la mia voce, e così è stato anche per la scrittura: mi son reso conto che questa volta, la scoperta della mia voce è stata più gioiosa e divertente. Prima era una sofferenza, una trasmutazione, adesso forse ora riesco a godermi i passaggi intermedi che ci devono essere tra zero e cento”.

Il susseguirsi di quegli anni è presentato con un ritmo concitato, fino al 2017, l’anno della crisi, che occupa la seconda metà del libro e su cui il cantante si sofferma con dovizia. Io sono dunque non sarebbe mai nato se non ci fosse stata l’esigenza di parlare pubblicamente di depressione, e il libro parla molto alle persone che soffrono di disturbi mentali di vario genere.

Ghemon ricorda alcune prime avvisaglie, il successo che sembra non bastare e non soddisfare mai davvero. Parla di sindrome dell’impostore, distorsione della percezione che porta il talentuoso a dubitarne e temere di venire scoperto. Piano piano, da presentimento/intuizione inconscia, la depressione assume una forma reale. La prima diagnosi la fa il padre della sua ex fidanzata, psichiatra, da cui poi parte un percorso di psicoterapia, fino all’aiuto degli psicofarmaci: “Per me è importante parlarne, perché quando ho sentito personaggi o musicisti che lo facevano, ho ricevuto sollievo. È una condizione molto sfaccettata e diversa per ognuno, dove però tendi a pensare che sia tua e basta. Volevo evitare il pietismo o la pacca sulla spalla, ma volevo anche fare un’analisi di come la depressione può affliggerti in modo sotterraneo per lungo tempo. Scrivo non nel momento in cui vivo la sensazione, ma dopo che l’ho elaborata e compresa”.

Il fatto stesso di parlare di sentimenti, mostrare la mia parte debole, scegliere la musicalità e la melodia mi rendeva diverso. Anzi, un ‘diverso’. Questa pochezza mi rattristava, ma sapevo che l’hip hop mi aveva formato nel migliore dei modi e che il problema non era quel migliore impianto culturale, ma l’ignoranza”. Lo scrive Ghemon nel suo libro e lo conferma, aprendo una parentesi sulla percentuale delle donne che lavorano nel suo ambiente: “È vero che in mondi come il rap la diversità viene vista come mollezza. L’iniziale chiusura del genere era una questione strutturale, che aveva il suo senso (ma non l’ignoranza, che non è mai condonabile). Tante volte, però, chi fa rap, essendo una massimizzazione dell’ego, pensa basti a se stesso, e che non ci sia bisogno del talento. Ora quell’ambiente è molto più aperto. C’è una quota femminile che non si riesce ad affermare in un mondo maschile, ma come in tanti ambiti di lavoro. Alle donne bisogna dare la possibilità di far capire che sono meglio dei maschi, ma è un riflesso di come va il mondo, niente di diverso”.

L’avventura editoriale non è il primo diversivo dalla musica. Proprio a inizio anno, Ghemon è stato avvistato a Milano a una serata di stand-up comedy. Da cosa nasce questo bisogno? “L’umorismo ce l’ho in casa, il sarcasmo è di famiglia. Alla commedia stand-up mi sono appassionato ormai da sette-otto anni e non l’ho mai considerata come un’arma a mio favore prima, ma mi è stata d’aiuto durante le fasi più dure della depressione, complice Netflix. E qualche settimana fa mi sono cimentato: ci sono affezionato perché è un ragionamento fatto ad alta voce, con esagerazioni e nonsense. Chi la pratica parla tanto di sé e io non sempre riesco a farlo nelle canzoni, perciò è un altro modo per riflettere su me stesso”.

Ghemon crede fermamente nella lettura come strumento per aprirsi al mondo circostante: “In questo momento storico c’è una parte di umanità che prova a esporsi su determinate cose, ma ciò è considerato noioso dall’altra parte, che non vuole pensare. E quella parte è composta da chi non legge, forse…”.

Le sue letture preferite sono le biografie: “Quella a cui sono più legato è Un’anima divisa in due. Vita di Marvin Gaye di David Ritz. Spesso gli umani non hanno il senso di prospettiva, finché non tirano le somme e si rendono conto di quello che hanno fatto. È successo anche a me con il mio libro. Marvin Gaye ha goduto e sofferto, ambiva sempre a qualcosa di più. Potrei citare anche Open di Andre Agassi. Mi interessano le storie di cadute e risalite, quando sono autentiche. Mi piace questa dose di realtà”.

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