“Voleva stare vicina alle donne di cui scriveva, reali o immaginarie. Si considerava una di loro, ma si offendeva quando i suoi romanzi erano considerati narrativa sporca, e temeva che sarebbe stata dimenticata presto…”. Su ilLibraio.it Violetta Bellocchio racconta Jacqueline Susann che, “quando voleva, sapeva scrivere con brutalità. ‘La valle delle bambole’, romanzo-scandalo pubblicato nel 1966 e più volte riscoperto, è una storia dell’orrore, abilmente manovrata da un’autrice che dimostrava totale spietatezza verso i suoi personaggi…”

Avere un desiderio, nell’economia morale di un romanzo, è molto pericoloso. E ancora più pericoloso è avere successo, perché appena il desiderio si avvera tutto diventa orribile. La celebrità non dura, il denaro viene rubato, la bellezza comporta sacrifici, il benessere significa buttare giù sonniferi e anfetamine. Se il desiderio al cuore della Valle delle bambole può essere riassunto con “sfondare nel mondo dello spettacolo”, e se le protagoniste sono tre donne che non brillano per indipendenza, i lettori sono padroni di saltare alle conclusioni più ovvie. Del resto, un libro non può vendere 30 milioni di copie e piacere a tutti. Specie se viene ricordato come uno scandalo.

Il dato impossibile da prevedere, per chi ha solo sentito parlare del romanzo, è quanta parte della storia si svolga dietro le quinte, in ambienti privi di fascino. Uffici, sale d’attesa, alberghi. E per ogni episodio familiare al genere – corse in ospedale, tradimenti, foschi segreti – ci sono interi capitoli dominati da personaggi minori che discutono i dettagli di un contratto. Ci si può sentire presi in giro, di fronte a dieci, magari venti pagine di dialoghi sulla clausola 18 bis e come aggirarla, e cosa è necessario che accada, in quale ordine, perché un’attrice decida di abbandonare uno spettacolo, risparmiando ai produttori il pagamento della penale e il fastidio di licenziarla… Chi si lamenta degli elenchi di American Psycho non ha mai letto La valle delle bambole. Ma sono proprio le parti noiose ad avere un effetto ipnotico, a dare un carattere e un senso al romanzo.

Le protagoniste, in primo piano, impazziscono, litigano, piangono, si picchiano: intanto sul loro futuro decide qualcun altro, a porte chiuse. Jacqueline Susann, quando voleva, sapeva scrivere con brutalità. Raccontava quanto sgradevole potesse essere la vita di una donna giovane, e quanta fortuna lei potesse arrivare ad avere – per qualche anno – se riusciva a staccarsi dalla massa, diventando un oggetto prezioso, attraente, capace di generare denaro.

la valle delle bambole

Un’immagine dal film omonimo, diretto nel ’67 da da Mark Robson

I lettori degli anni Sessanta erano molto più smaliziati di come faccia comodo ricordarli. Quando La valle delle bambole arrivò in libreria, nel 1966, c’erano oceani di materiale esplicito a disposizione – dalla pornografia a Lolita passando per Ann Bannon – e l’epoca del romanzo scandaloso come consumo di massa era già stata inaugurata da Peyton Place. La furbizia di Susann stava nell’avere intuito l’ambiguità con cui il grande pubblico avrebbe partecipato alle vicende delle protagoniste: il desiderio di vederle arrivare in alto era controbilanciato dal desiderio di vederle cadere, perdere tutto. Non era una soap opera su carta, quindi: era una storia dell’orrore, abilmente manovrata da un’autrice che dimostrava totale spietatezza verso i suoi personaggi, e che in pubblico si presentava come la versione intelligente degli stessi personaggi. Da ragazza aveva fatto l’attrice, aveva provato a scrivere commedie, aveva sposato un addetto stampa che la adorava. Conosceva bene la serie B dell’epoca, il teatro, le TV locali: frequentava i locali giusti, ma non aveva il tavolo migliore. Non cercava l’approvazione della critica, andava fiera di essere “una che piace alla gente”. Parlava di sesso con una fermezza sorprendente, ma anche con una particolare assenza di emozioni – stando ai suoi editor, Susann non riusciva a rendere eccitanti le sue scene erotiche perché non le interessavano; le uniche pagine con una vitalità sono quelle dove metteva in scena una relazione tra donne. Questo non passò inosservato nemmeno alla prima edizione. In termini di desiderio personale, Susann voleva stare vicina alle donne di cui scriveva, reali o immaginarie. Si considerava una di loro, ma si offendeva quando i suoi romanzi erano considerati narrativa sporca, e temeva che sarebbe stata dimenticata presto. Anche da quella paura, forse, nascevano le sue scelte più dure. Come la precisione con cui, nelle Bambole, tirava una bastonata imperdonabile all’unico personaggio che fino a pochi minuti prima sembrava destinato a uscire dalla storia con una traccia di dignità.

Jacqueline Susann

La valle delle bambole non è mai stato dimenticato. Al limite, continua a passare e poi tornare di moda. Il suo adattamento per il cinema, bollato come “uno dei film più brutti di sempre” grazie alle tipiche sparate della critica fine anni ’70, è diventato un culto per pochi. Poi sono venute alla ribalta alcune donne che amavano il libro senza ironia – la prima è stata Courtney Love: loro leggevano le Bambole come una Bibbia del cattivo comportamento, e nell’anti-eroina Neely O’Hara – ingenua, tossicomane, matta, sleale e indistruttibile – sentivano la loro stessa ambizione, un po’ della loro energia. Negli anni Zero è scattato l’effetto vintage, e un romanzo poteva essere recuperato perché apparteneva a un passato che sembrava lontano. Oggi, con la ripubblicazione da parte di Grove Press e Sonzogno, il cerchio si chiude: le Bambole sono talmente legate a un periodo specifico da diventare senza tempo. Restano impresse per l’insistenza maniacale sui dettagli, e per l’efficienza con cui Susann raccontava certi stati d’animo: la paura della solitudine, l’ansia del non vedersi riconosciuti i propri meriti o dell’arrivare sempre troppo tardi, quando l’età dell’oro è finita da un pezzo. Emozioni abbastanza umane perché chiunque possa credere di ritrovarci qualcosa di sé.


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