“Kintu” è il primo romanzo della scrittrice ugandese Jennifer Nansubuga Makumbi. Al centro dell’opera, la storia di una dinastia perseguitata da una maledizione, e la risposta alla domanda: cosa significa essere ugandesi? Tra i tanti temi affrontati, il patriarcato, la malattia mentale e la sessualità – L’approfondimento

Pubblicato in Kenia nel 2014, ha faticato a trovare un editore in UK, ma alla fine nel 2018 OneWorld ne ha acquistato i diritti. E ora è arrivato anche in Italia grazie a 66thand2nd, nella traduzione di Emilia Benghi. Parliamo di Kintu, il primo romanzo della scrittrice ugandese Jennifer Nansubuga Makumbi (in copertina fotografata da Mark Rusher, ndr).

Jennifer Nansubuga Makumb

Al centro dell’opera – definita dalla stampa britannica e non solo “il” romanzo ugandese, e spesso accostata al “romanzo nigeriano” per antonomasia, Le cose crollano di Chinua Achebe – la storia della dinastia di Kintu, perseguitata da una maledizione.

Makumbi con il suo romanzo cerca di rispondere a una domanda: cosa significa essere ugandesi? Non a caso Kintu è anche il nome del primo uomo, secondo una leggenda della sua terra, nonché il Dio-padre dei primi abitanti della nazione. Come il suo omonimo, anche il Kintu del romanzo è il fondatore di una stirpe, seppur maledetta.

Il libro si apre nel 2004, quando un discendente di Kintu viene ucciso dalla folla che lo crede un ladro. Poi la narrazione fa un salto alla fine del Settecento, quando la maledizione si abbatte sulla famiglia di Kintu, un Ppookino, ossia un governatore del regno di Buganda.

Nel corso delle sei sezioni che compongono il romanzo, la scrittrice percorre diversi momenti della storia dell’Uganda attraverso le vicende personali di alcuni dei discendenti di Kintu, in particolare uomini.

La percezione della mascolinità nella storia del paese, infatti, è uno dei temi ricorrenti nell’opera: Kintu, costretto dalle usanze ad avere molte mogli, si definisce “un toro da monta gettato in una mandria di giovenche”. Generare figli è il suo dovere, ma è anche una croce che si porta sulle spalle di malavoglia: “Era il Ppookino: perché doveva montare tutte le donne che gli mettevano davanti? D’altro canto, come poteva esimersi? Era un uomo, un erogatore di seme. Era un atto naturale: doveva provarci gusto”, scrive Makumbi.

La denuncia del patriarcato attraverso gli occhi degli stessi uomini che si sentono costretti dalla società ad assumere determinati ruoli, è un’interessante critica alla mascolinità tossica.

La scrittrice esplora anche altre tematiche quanto mai attuali: genere e sessualità. E racconta come omosessualità o comportamenti non gender conformi nell’Uganda pre-coloniale fossero accettati: dalla storia di una giovane donna che fugge dal vecchio che è stata costretta a sposare perché vuole vivere da sola, dedicandosi ad attività generalmente riconosciute come maschili, fino al governatore gay.

Tra gli altri temi toccati, la malattia mentale – forse il vero motivo della maledizione della stirpe? – il conflitto tra tradizione e modernità, la religione, i pregiudizi della società.

Kintu si fa inoltre racconto della vita a corte, tra intrighi di palazzo e tradimenti, e dell’Uganda di inizio Duemila, dove per strada donne e uomini inferociti si scatenano su presunti criminali, applicando la legge del taglione.

Jennifer Nansubuga Makumbi ha lavorato per dieci anni alla scrittura di Kintu e il risultato è un romanzo dove ogni paragrafo si fa portatore di significati destinati a cambiare le sorti dei protagonisti.

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