“Il vecchio” è un appassionato affresco socio-culturale della Cina del XX secolo. Jia Pingwa, autore prolifico, già noto per “Lanterna e il distretto dei ciliegi”, torna con un romanzo su una società in balia di stravolgimenti economici e sociali, in cui la spregiudicatezza e l’egoismo fanno guardare con nostalgia alla purezza di quel vasto repertorio di leggende dominato da bestie e elementi naturali – L’approfondimento

“Anche gli dei e gli spiriti invecchiano”. Succede così che persino il più longevo dei cantori funebri, conosciuto in tutte le terre del Quinling, si trova a giacere nella lenta agonia che accompagna gli ultimi giorni della sua densa esistenza: a vegliarlo, un giovane pastore che per sconfiggere la noia ingaggia un maestro privato che, armato del Libro dei monti e dei mari, giorno dopo giorno lo illumina sulle meraviglie della tradizione cinese classica.
Ma a queste lezioni nozionistiche fa da contrappunto il vissuto dell’involontario e silente uditore, che al sapere antico unisce un resoconto crudo e bizzarro, tutto personale, delle vicende della Storia e degli uomini.

Jia Pingwa, prolifico scrittore cinese già noto per Lanterna e il distretto dei ciliegi (Elliot, 2017), torna in Italia con Il vecchio, romanzo che lascia trasparire accanto all’amore per la sua terra e l’immenso bagaglio culturale che si porta dietro uno sguardo lucido e satirico su una società in balia di stravolgimenti economici e sociali, in cui la spregiudicatezza e l’egoismo della natura umana fanno guardare con nostalgia alla purezza di quel vasto repertorio di leggende dominato da bestie e elementi naturali.

Jia Pingwa Il vecchio

I personaggi che animano queste pagine sono numerosi e dai tratti quasi grotteschi: vicende ai limiti dell’inverosimile si intrecciano a gesta di violenza a sprazzi gratuita, legate a temperamenti istintivi e irrefrenabili. Rancore e rabbia sembrano essere le pulsioni che serpeggiano a livello sia individuale che sociale, portando con sé un carico non indifferente di frustrazione, anche di fronte agli apparenti successi:

Ora che si erano vendicati, non sapevano più cosa fare. Seppellirono le armi e cambiarono nome, pensavano di addentrarsi nelle montagne e fare i braccianti per qualche padrone. Sotto sotto però masticavano amaro: tutti quegli anni di rivolta per non essere più contadini e poi si ritrovavano un’altra volta a sgobbare nei campi?

Quello che resta dell’universo evocato dal Libro dei monti e dei mari – e dei “quaranta rilievi tra grandi e piccoli, per una lunghezza di sedicimilatrecentottanta miglia” che compongono la trattazione dedicata a monti dai nomi suggestivi quali Monte Recasoldi, Monte Splendore, Monte Gloria, Monte Talismano – è un prezioso bestiario la cui valenza filosofica riporta agli antichi principi dello yin e yang, nucleo essenziale della cultura orientale. Pingwa, abilmente celato dietro ai toni didascalici del maestro, fa suo un piglio divulgativo in grado di aiutare noi lettori occidentali a districarci in un mondo così lontano dal nostro:

E così a poco a poco si è creato un metodo di osservazione della natura, lo yin e lo yang, il bianco e il nero, il maschio e la femmina, l’acqua e il fuoco, il morbido e il duro, il sopra e il sotto, il davanti e il dietro. Poi questi concetti sono stati estesi alla medicina tradizionale e da qui è nata l’idea del “simile che cura il simile”: ad esempio il cibo rosso rigenera il sangue, quello nero potenzia i reni, mangiare noci migliora le funzioni del cervello, il pene di asino aumenta la potenza maschile.

Percorrendo un intero secolo di storia scosso dai fermenti della rivoluzione comunista e da quella economica legata alla riforma agraria, Pingwa non risparmia neanche confronti con l’Occidente, il cui libro sacro (la Bibbia) presenta delle affinità con le leggende della Cina rurale. Un esempio ne è l’origine della frammentazione dei linguaggi: Ha presente la Bibbia, il libro sacro del mondo occidentale? Lì si legge che Dio, per impedire agli uomini di accordarsi nell’azione, cambiò i loro linguaggi: non comprendevano più le parole dell’altro e si dispersero su tutta la Terra. Questo è quanto si dice in occidente, e in oriente è successa la stessa cosa. Nei tempi antichi, quando l’uomo non era ancora forte abbastanza, c’erano già moltissime bestie. Se avessero usato gli stessi richiami e si fossero capite, probabilmente l’umanità non sarebbe mai esistita. Per questo il Cielo ha fatto sì che avessero versi differenti.

In questo colorato affresco socio-culturale, che tanto deve nel nostro caso alla fluida traduzione dal cinese di Patrizia Liberati, tra narrazione disincantata e sarcasmo a tratti dissacrante, Pingwa lascia emergere la nota melanconica del rimpianto di un’epoca in cui gli uomini avevano a che fare soltanto con le bestie, mentre adesso devono fare i conti quasi esclusivamente gli uni con gli altri.

E forse è questo, infine, a dipingere “un’espressione tragica e felice al tempo stesso, un sorriso indescrivibile» sul volto di quel cantore che «ha cantato nenie funebri per più di centodieci anni e, a forza di cantare, è morto”.

 

 

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