“Un certo senso del colore”: non a caso è sul cromatismo che Jung si concede l’unica ammissione pubblica del proprio talento – L’approfondimento

Vecchie foto in bianco e nero ritraggono Carl Gustav Jung nella biblioteca della sua casa di Küsnacht, sul Lago di Zurigo. Nella dimora che egli stesso ha contribuito a progettare, lo vediamo consultare assorto un libro antico, contemplare con manifesto compiacimento delle statuette d’avorio del dio Viṣṇu allineate su una mensola, oppure mettersi in posa davanti a un thangka tibetano appeso agli scaffali.

Di fronte all’obiettivo non nasconde l’orgoglio del collezionista che per tutta la vita ha raccolto oggetti in apparenza eterogenei e di valore diseguale, ma scelti uno a uno in quanto espressioni simboliche della psiche. All’epoca degli scatti – la metà del Novecento – è risaputa la passione collezionistica del fondatore della psicologia analitica, autore di una mole impressionante di studi e intellettuale tra i grandi del secolo. Quella che invece Jung mantiene segreta è la sua prodigiosa vena d’artista. Alla morte, nel 1961, ne sono al corrente solo i familiari e qualche amico intimo. E ancora a lungo il suo nome e l’arte non saranno associati.

Finalmente, nel 2009, la rivelazione: il Libro rosso, che Jung non volle mai pubblicare, fa conoscere al mondo di quale maestria fosse capace la sua mano nel calligrafare in caratteri gotici il «resoconto» della discesa negli abissi dell’umano e nell’illustrarla con tavole preziose, evocatrici di miniature medievali.

Intanto la Fondazione di Zurigo che tutela e promuove il lascito di Jung continua a inventariare le opere visive di cui si ha notizia, talora difficili da autenticare, dal momento che pochissime risultano firmate.

Adesso a sua cura esce un libro sontuoso, L’arte di C. G. Jung (traduzione di Maria Anna Massimello, Bollati Boringhieri) in cui dipinti, sculture e disegni in gran parte inediti sono attribuiti con certezza a Jung, ordinati tematicamente e commentati da storici dell’arte e psicoanalisti.

L’artista clandestino viene così tutto intero allo scoperto, e sfata l’idea che il Libro rosso, pur nella sua miracolosa unicità di centro gravitazionale, sia rimasto isolato in un’esistenza assorbita soltanto dal lavoro terapeutico e dalla cristallizzazione di un pensiero incandescente. Perché al cuore di quell’incandescenza ci sono le immagini: oniriche e fantastiche, attingendo a motivi archetipici lasciano trapelare l’inconscio collettivo. Senza la solidarietà tra linguaggio verbale e rappresentazione figurata, il metodo dell’immaginazione attiva elaborato da Jung forse non sarebbe stato concepibile.

Praticare le diverse forme d’arte visiva non è, dunque, lo svago privato di un uomo dai molti estri, e neppure un esercizio di bravura in cui dare prova di sé, ma si impone come un’esigenza conoscitiva maggiore che accompagna l’impresa analitica e spesso ne costituisce il prologo.

Questa finalità misura la distanza tra Jung e i movimenti artistici del tempo, in particolare le avanguardie, su cui esprime giudizi impopolari.

A lui premono gli aspetti simbolici delle figurazioni, che prendono corpo con tecniche lente ed esigenti, mentre verso stili più astratti non mostra alcuna empatia. Osservati oggi con l’occhio della critica d’arte, però, i guazzi, gli acquerelli, i disegni a matita, le pergamene dipinte di Jung dichiarano in pieno la loro modernità, soprattutto nell’uso del colore.

Si tratti di mandala o paesaggi sotto cieli infiammati, divinità fluttuanti o iniziali miniate, la gamma cromatica acquista tonalità fortemente simboliche anche grazie alla propensione a una certa, rilucente astrattezza. Non a caso è sul cromatismo che Jung si concede, con impareggiabile understatement, l’unica ammissione pubblica del proprio talento: «Avevo un certo senso del colore».