La trama de “La malnata”, atteso romanzo d’esordio di Beatrice Salvioni, ci porta nel marzo 1936. Sullo sfondo della guerra di Abissinia, una storia di formazione, amicizia femminile, adolescenza e sopraffazione – Su ilLibraio.it un estratto

La malnata (Einaudi Stile Libero) è il primo romanzo di Beatrice Salvioni (in copertina, nella foto di Basso Cannarsa). L’autrice, classe ’95, si è diplomata nel 2021 alla Scuola Holden e ha vinto il Premio Calvino racconti.

Il suo atteso debutto è in corso di traduzione all’estero ed è in procinto di diventare una serie tv.

Il libro di Salvioni è ambientato a Monza, la sua città natale, e ci porta nel marzo 1936: sulla riva del Lambro, due ragazzine cercano di nascondere il cadavere di un uomo che ha appuntata sulla camicia una spilla con il fascio e il tricolore. Sono sconvolte e semisvestite. È Francesca a raccontare in prima persona la storia che le ha condotte fino a lì.

Dodicenne perbene di famiglia borghese, ogni giorno spia dal ponte una ragazza che gioca assieme ai maschi nel fiume, con i piedi nudi e la gonna sollevata, le gambe graffiate e sporche di fango.

Sogna di diventare sua amica, nonostante tutti in città la considerino una che scaglia maledizioni, e la disprezzino chiamandola Malnata. Ma quella sua aria decisa, l’aria di una che non ha paura di niente, la affascina. Sarà il furto delle ciliegie, la sua prima bugia, a farle diventare amiche.

Sullo sfondo della guerra di Abissinia, del dolore per la perdita e degli scompigli dell’adolescenza, Francesca impara con lei a denunciare la sopraffazione e l’abuso di potere, soprattutto quello maschile, nonostante la riprovazione della comunità.

Beatrice Salvioni La malnata

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Mancavano due giorni a Natale e la neve aveva preso a cadere fitta posandosi sulle cose come volesse farle sparire, i giardinetti vicino alla fermata del tram erano solo per noi. C’era un silenzio strano intorno, gli odori intensi: quello dei guanti di lana, umidi per quante palle di neve ci eravamo lanciati, il sudore che filtrava dai cappotti pesanti e la resina appiccicosa degli abeti. La Malnata si dondolava sull’altalena calciando via i mucchi di neve; Filippo e Matteo, appoggiati alla struttura di legno, parlavano di regali e di guerra.

– Da grande ci voglio andare, – disse Filippo, – cosí imparo a sparare col moschetto e mi prendo anch’io le donne dei nemici –. Si augurava che quell’anno il padre gli regalasse un trenino di latta e il fucile vero coi proiettili: ai raduni del sabato avrebbe dimostrato che sapeva sparare come un uomo. Matteo, dal canto suo, desiderava solo poterlo rivedere, suo padre, che dal confino non scriveva alla famiglia perché non aveva mai imparato nemmeno a leggere. I due ragazzi litigavano spesso da quando il padre di Matteo non era piú a casa. A innescare la lite bastavano motivi sciocchi, per esempio a chi toccasse spingere la Malnata sull’altalena o chi meritasse di mangiare l’unico biscotto intero tra quelli che Filippo aveva sgraffignato in cucina, sbriciolati dentro un fazzoletto con le iniziali ricamate. Si insultavano, si chiamavano con nomignoli cattivi. Matteo diceva che, da grande, Filippo sarebbe diventato come i carabinieri che avevano arrestato suo padre: un venduto e un codardo. Lui invece diceva che Matteo era un ignorante e non sarebbe diventato proprio niente, come suo padre. Si picchiavano rotolandosi nella neve, si tiravano calci. Maddalena interveniva a separarli, urlando «Piantatela». Dava a entrambi uno scappellotto, forte: «Siete capaci solo di ripetere quello che dicono gli altri». Poiché era lei a chiederlo, alla fine, controvoglia, facevano pace. Solo su un principio Matteo e Filippo non litigavano mai: era la guerra a renderti un uomo fatto, perché solo il giorno in cui conosci il sangue puoi dire di essere cresciuto.

Maddalena aveva il suo vecchio cappotto maschile abbottonato fino alla gola. Fece un cerchio nella neve con la punta del piede e disse: – Non serve mica andare in guerra, per essere uomini.

– E l’onore dove lo metti? – disse Filippo.

– L’onore ci può essere anche senza la guerra. E senza il duce, – ribatté lei.

Matteo si ficcò le mani sotto le ascelle per scaldarle e tirò su con il naso: – Me ne frego del duce. Ma se vuoi definirti uomo devi essere capace di ammazzare. Guerra o non guerra.

– Sono cose da maschi, – aggiunse Filippo, – cosa vuoi capirne tu?

Scese di botto il silenzio. Un mucchio di neve scivolò da uno dei rami più alti e cadde a terra con un suono ovattato.

Era da quella volta del sangue giú al Lambro che Matteo e Filippo avevano cominciato a guardarci in modo diverso, a cercare le differenze che li distinguevano da noi. Da quando poi Maddalena aveva deciso di riammettermi malgrado loro non fossero d’accordo, avevano preso a parlare fitto fitto zittendosi di colpo appena ci avvicinavamo con la scusa che erano «cose da maschi».

Erano convinti che nascondessimo un segreto, io e Maddalena. Per questo, avevano deciso di inventarsene uno anche loro, per non essere da meno.

Maddalena rise: – Perché, voi sapreste davvero ammazzare qualcuno?

– Non ci credi? – fece Matteo.

– Ma che vuoi che ne sappia lei? – Filippo esplose in una risata cattiva. – Dice cosí perché in guerra non ci può andare nemmeno da grande e deve rimanere qui a cercarsi un marito e a dargli i figli che poi diventano soldati. Me l’ha detto mio fratello, a me, che l’unica cosa che devono imparare a fare le femmine è a darsi senza pretendere, proprio come le donne del duce. Perché se sei uomo, le cose che vuoi, te le prendi e basta. Ce lo dice sempre papà.

Maddalena saltò di colpo giú dall’altalena e andò verso di lui.

Filippo arretrò tanto in fretta che inciampò nel palo di legno crollando a terra, la schiena affondata nella neve.

– Hai paura, adesso, eh? – La Malnata era calma.

Filippo ansimava, le braccia larghe, fumando vapore dalla bocca spalancata. – Dài, picchiami, allora.

– Non serve, – fece lei, – tanto lo sai già, che ti batto.

– Ti sei fatta cambiare da quella lí, – disse lui. Si sollevò spazzandosi di dosso la neve, e per un attimo nei suoi occhi chiari rividi quelli del padre, il modo che aveva di guardare le cose come se fossero sue. – Siete solo femmine. Voi non sapete che vuol dire ammazzare, – sibilò.

Era la prima volta che uno di loro usava quella parola per Maddalena: femmina, lei non lo era mai stata. Non per loro.

– Le femmine siete voi che non capite niente, – sputò Maddalena. Mi prese una mano: – Andiamocene.

Corsi con lei verso l’uscita dei giardinetti, la neve che scricchiolava sotto le scarpe.

El can furestee cascia el can de paiee, – ci urlò dietro Matteo, come se la Malnata fosse una cosa loro e io fossi un nemico venuto da chissà dove per cacciarli e averla tutta per me.

Maddalena mi tenne la mano per tutto il tempo mentre andavamo verso il ponte. Agli angoli dei marciapiedi c’erano i venditori di caldarroste e di castagnaccio, che facevano salire nel cielo il fumo denso dei loro fuochi, i vetri dei negozi erano appannati dai respiri delle donne immerse negli ultimi acquisti e quando le porte si aprivano arrivavano fino in strada le canzoni di guerra diffuse dalla radio, l’acqua nelle fontane era gelata, quella del Lambro grigia come il cielo.

Fu all’altezza del ponte dei Leoni che Maddalena si fermò. Aveva il fiatone e le guance accaldate per la corsa. Disse: – Dopo la messa di Natale mangiamo il panettone con la crema. Ho detto a Donatella di tenere una fetta anche per te. Se vuoi, noi andiamo a San Gerardino, a quella di mezzanotte.

La messa di mezzanotte era una cosa da grandi che mi era sempre stata preclusa.

Che a quell’ora una bambina fosse ancora sveglia non stava bene, diceva mia madre, ma era perché voleva esibirsi senza doversi preoccupare di badare a me.

Era un modo per mostrarsi alla città, la messa di Natale. Ci si andava per guardare, farsi guardare e parlar male di chi non c’era. Al duomo i posti erano riservati: davanti stava il segretario del fascio rionale con la famiglia al completo, in divisa, il podestà e le altre autorità cittadine con i carabinieri. Le prime tre file di panche a Natale erano interamente nere.

 © 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino  

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Beatrice Salvioni, nella foto di Basso Cannarsa

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