Cosa accadrebbe se la voce di un individuo sopravvivesse alla morte del corpo? Ci sarebbe ancora qualcuno – un pubblico – disposto ad ascoltarla? Sacha Naspini è tornato in libreria con “La voce di Robert Wright”, un thriller psicologico sulla disgregazione dell’identità che guarda alla tragedia classica e al teatro dell’assurdo

Cosa accadrebbe se la voce di un individuo sopravvivesse alla morte del corpo? Ci sarebbe ancora qualcuno – un pubblico – disposto ad ascoltarla?

Una domanda che ha i toni dell’allusione metafisica trova riscontro nella realtà quotidiana di Carlo Serafini, doppiatore storico di una delle star hollywoodiane più amate di tutti i tempi, Robert Wright. Ma l’attore decide improvvisamente di togliersi la vita, portando via con sé anche un pezzetto di chi ha permesso alle sue parole di essere comprese dal pubblico italiano…

SACHA NASPINI La voce di Robert Wright

La voce di Robert Wright, ultimo romanzo di Sacha Naspini (e/o) si apre proprio su quelli che sembrano i contorni di un trauma identitario: un uomo già avanti con l’età che ha costruito vita e carriera su un singolo personaggio, si trova di colpo sprovvisto del suo unico riferimento, guardato con ammirazione ma anche con sgomento da chi è abituato a reagire a ogni sua parola con un sospiro stupito.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che il primo istinto di Carlo Serafini agli albori di una nuova esistenza da vedovo di sé stesso sia quello di tacere. Smettere di parlare, di rispondere, di interagire: un’alienazione verbale prolungata che, accompagnata da un’inespressività che si finge zen, con l’inevitabile effetto domino che scatena finisce per collocare il protagonista al centro dell’attenzione mediatica, portando a galla fantasmi ed errori del passato.

Probabilmente fu in quel momento che lo capisti: con la faccenda della cospirazione stavi mettendo in scena la storia della tua vita. Quell’infinita rincorsa per affermarti e afferrarti davvero. E finalmente passare allo stadio solido di te.

Vittime, ricatti, scomparse: gli ingredienti per un thriller perfetto sono tutti presenti. Con il piccolo dettaglio che, nel passato così come nel presente di Carlo Serafini, la scena del crimine è una sola: il palcoscenico della sua vita.

Restasti per un’altra ora lì a cercare di capire se davvero era conveniente concederti a un palco di quel tipo, c’erano tanti rischi e vari punti di non ritorno. Ti trovavi in piedi su un certo confine delle cose; compiere il primo passo era rompere un vetro, sfondare una barriera. Ammettere il degrado, quindi combatterlo. Dopo l’accerchiamento da parte del nemico si trattava di sparare il primo colpo. Conscio che quell’esplosione avrebbe decretato l’inizio di una guerra.

La voce di Robert Wright è interamente narrato alla seconda persona: il protagonista, devastato nella sua identità, parla a sé stesso nel vano tentativo di assemblare quei cocci sgretolati, di restituirsi la voce che gli è stata sottratta per diventare monopolio altrui. La mania psichica autodistruttiva, una volta avviata, è ben difficile da disinnescare: prima la sola voce, poi la sua intera persona, Carlo Serafini si nega agli occhi e alle orecchie della moglie, del figlio, della nuora e dei consuoceri – in pratica, di quella famiglia che ha sempre goduto dei frutti del suo lavoro, complice della condanna di una professione che gli ha garantito la fama al prezzo della possibilità di essere sé stesso.

L’ultimo, cupo, romanzo di Naspini ha già in sé i presupposti per essere portato sul palcoscenico: le continue allusioni al pubblico, le congetture sui giochi di ruolo da smascherare, sono a tutti gli effetti parte di una dimensione che si snoda dietro al sipario e che, con il progredire della narrazione, assume quasi i tratti di una tragedia classica: una sola scena (il salotto di casa Serafini), in cui si avvicendano svariati personaggi uniti intorno a qualcosa di oscuro da svelare.

Era come una specie di ospite che sedeva sul divano: il fantasma dell’oblio. Qualcuno che sparisce e basta è qualcosa da cui non ci si può difendere, i sospesi rischiano di divorarti l’esistenza: parole non dette, gesti mancati… Ogni personaggio, sulla scena del settimo piano, incamerava l’assenza a modo suo, sbranato dai cani del senso di colpa. Tutti sembravano confrontarsi con questo concetto, con varie inclinazioni e intensità: “Non è lui che sparisce. Sono io che resto”. Adesso che avrebbero potuto parlare e fare non avevano che una carta: l’immobilità. E il silenzio, che sapeva già di veglia funebre.

Nonostante un finale che stempera la tensione, con una scrittura che si riconferma ancora una volta densa e avvincente Naspini ci lascia penetrare nella psiche contorta e morbosa di un personaggio espressamente pirandelliano, arricchendo il suo repertorio di figure sempre in bilico tra l’iconico e il grottesco e sempre, in un modo ogni volta diverso, troppo umane.

 

 

 

 

Fotografia header: Alessandra Fuccillo

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