È un uomo alla deriva il protagonista di “Last Taxi Driver” e, proprio, come l’autore (Lee Durke) ha fallito come scrittore. Il suo è una sorta di monologo interiore tra il flusso di coscienza e il flusso di bile, in un trionfo di humor nero… – L’approfondimento su un romanzo che si inserisce nel filone del racconto dell’antieroe in crisi economica e morale

Guida una Lincoln Town Car, berlina di lusso prodotta fino al 2011, ma questa è vecchia e acciaccata perché la compagnia di taxi per cui lavora Lou Bishoff fa orecchie da mercante a ogni sua richiesta di manutenzione.

È un uomo alla deriva, superati i quarant’anni e varie traversie, sostanzialmente senza prospettive. Ha fallito come scrittore (dopo un primo romanzo pubblicato giovanissimo e considerato promettente), come insegnante (è stato cacciato da un’università causa un corso non troppo riuscito su Shakespeare) e, se sul piano economico se la passa maluccio, su quello esistenziale le cose sono messe anche peggio. La sua ragazza, che dovrebbe essere una poetessa e legge o finge di leggere versi in varie lingue (ma forse non le conosce affatto), è in preda alla depressione da un sacco di tempo: passa la vita tra il letto e il divano.

Il protagonista di Last Taxi Driver, secondo romanzo di Lee Durke pubblicato ora, anzi si direbbe scoperto, dalle edizioni Black Coffee nella smagliante traduzione di Leonardo Taiuti, è il classico perdente, figura quasi archetipica nella letteratura americana, e non solo dalla crisi del ’29 in poi, si può risalire fino a Hawthorne.

L’impoverimento, lo sprofondare, il perdere ciò che si aveva, insomma la discesa della middle-class negli inferi sociali è, in una cultura che prevede e anzi privilegia le rotture, senza paracadute, un filone centrale, basti pensare a Pynchon o persino alla Margaret Atwood di Per ultimo il cuore; e anche ovviamente a grandi esempi come Steinbeck o a quel piccolo capolavoro che è Mildred Pierce di James M. Cain (Il postino suona sempre due volte è forse più complesso, sebbene non ignori questo tema).

Durkee ne sembra talmente consapevole da volerlo segnalare conferendo al suo romanzo una chiave mitica, ovviamente metaletteraria: il taxista si vede infatti come una sorta di Caronte che traghetta i passeggeri all’inferno – e nello stesso tempi all’inferno “traghetta” se stesso.

Non si tratta del demonio dantesco, e quindi per un pelo lo scrittore americano non finisce ora nell’allegra logomachia del Dantedì e successivi ricaschi; quello che definisce “l’irsuto barcaiolo” viene infatti da di Virgilio, (Eneide, libro 6), è “l’orribile traghettatore” di “terribile squallore”, dalla “canizie incolta”, gli “occhi di fiamme” (nella Commedia diventeranno come noto “di bragia”) e “uno sporco mantello”.

last taxi driver

È uno spaventoso poveraccio, più che un demone che amministra implacabile la giustizia divina. Ed è l’immagine chiave di un romanzo dotato di una consistente vena comica (o tragicomica): perché Lou è stressato, preda di umore teterrimo, ma sostanzialmente tenta di riderci su, in una corsa al grottesco e al paradossale.

Incapace di contenere la propria rabbia, anche se non privo di atteggiamenti solidali e persino affettuosi, cerca una soluzione studiando il buddismo, ma dubita del risultato: “Io sono una bestia rara, un mississippiano buddista, e prima di mettermi a fare questo mestiere credevo anche di essere un buon buddista, o quantomeno decente. Ora col cavolo. Ora so di essere il buddista peggiore del pianeta”.

Viaggia instancabile in una città immaginaria del Mississippi che detesta (è – si spera trasfigurata – Oxford M.S., dove vive l’autore), piena di bifolchi e di razzisti, di studenti ottusi e danarosi, e soprattutto di poveri, anziani malati, tossicomani, gente che vive nelle roulotte o in tuguri tristissimi, o in motel da quattro soldi; gente che dopo una corsa scompare, dimenticata da tutti, e lascia incombere su Lou, come fosse seduta ancora sulla sua scassata Lincoln, oltre a un certo irritante senso di colpa, il proprio fantasma. Perché lui vorrebbe essere più “buono”, provare più compassione; vorrebbe gentilezza e generosità, e cerca pure di dispensarla; ma viene subito travolto dall’incalzare degli avvenimenti, delle chiamate dalla centrale, dall’avvicendarsi frenetico dei passeggeri. Il suo è una sorta di monologo interiore tra il flusso di coscienza e il flusso di bile, in un trionfo dello humor nero.

Lou Bishoff parla un po’ come un personaggio da hard boiled, ma anche da intellettuale qual è, giocando di citazioni in modo a volte beffardo, e il risultato è un impasto linguistico talvolta esilarante, tra il sublime e il canagliesco. Non si diverte per nulla. L’autore, invece, si direbbe di sì.

Tesse un romanzo che è una giustapposizione di episodi sgradevoli e a volte catastrofici, quasi una serie di bozzetti, potremmo dire, joycianamente, di epifanie – o di epicleti, come lo scrittore irlandese preferì alla fine definire i suoi racconti dublinesi: talmente grottesche da essere appunto comiche, e che riconducono a una sorta di conoscenza riottosa, a un’ilare disperazione. Lou carica e scarica personaggi che per la maggior parte sono “brutti”, repellenti o comunque connotati anche fisicamente dalla loro condizione, compreso il suo supervisore Horace, considerato una specie di carogna, che “pesa all’incirca centocinquanta chili, il che è sbalorditivo se si pensa che ha appena tre denti”. Ciò non gli evita qualche accensione o fantasia sessuale, frustrata: salvo in un caso in cui viene praticamente aggredito e sottoposto a un fugace se pur piacevole rapporto orale, anche se l’appagamento conclusivo è fortemente turbato dal timore che gli sia stata rubata una mancia da 100 dollari. Non sarà così; quando però ritroverà la banconota sul fondo del taxi, avrà poco tempo per rallegrarsene, perché nuovi disastri incombono.

Non diremo come va a finire la storia, ma in qualche modo non è che Last Taxi Driver “vada a finire” per davvero: l’autore è del resto troppo coinvolto per saperlo egli stesso, essendo questa, deformata in un gioco all’eccesso, anche la sua vicenda.

Lee Durkee ha la stessa età del protagonista, e come lui scrisse un romanzo peraltro acclamato una ventina di anni fa, Rides of the Midway, anch’esso una vicenda ambientata nel “dark side” del Mississippi urbano; poi più nulla. Nel frattempo, fra le altre cose, ha guidato un taxi, anzi proprio una Lincoln Town Car: non sappiamo in che condizioni fosse, si immagina non proprio perfette. L’importante in tema di perfezione è però il modo in cui quell’auto ritorna per così dire come un oggetto letterario in un contesto linguistico di indubbia efficacia, quasi un’epica picaresca. Ora sarà da vedere se, come spesso accade al nostro sistema dei media, Durkee verrà improvvisamente acclamato come il grande scrittore americano sconosciuto, costume diciamo un po’ provinciale.

Com’è ovvio, non ci sono elementi per affermazioni del genere: è un ottimo scrittore, questo sì, che forse (ma è una caratteristica tipicamente americana) esagera nel voler raccontare proprio “tutto”.

È interessante notare però come la tradizione o il filone letterario che incarna si sia affacciando infine anche da noi, nell’ambito delle successive crisi mondiali e non solo della pandemia che sta cambiando il nostro modo di vivere e le nostre società. L’uomo in crisi economica e morale (più il maschio che la femmina, almeno per ora), l’antieroe dell’impoverimento è ad esempio il protagonista di almeno due romanzi, certo diversi tra di loro, da poco in libreria.

Penso a Money di Andrea Kerbaker (La Nave di Teseo) e a Qui dovevo stare di Giovanni Dozzini (Fandango) che raccontano ciascuno a suo modo una “discesa”, uno sprofondamento economico e morale sostanzialmente inconsapevole, almeno fino quando non si è del tutto compiuto. Quello di Dozzini, poi, ha uno sfondo politico (l’ultimo cambio di maggioranza in Umbria, col tracollo del Pd) e un andamento monologale e anamorfico che ricorda – alla lontana ma non tanto – proprio il romanzo di Durkee: non per gli sventurati che ne reggono l’ossatura narrativa (o epifanica), ma per gli atteggiamenti ideologici e morali che ne costituiscono lo sfondo.

Money e Qui dovevo stare

Libri consigliati