Da Dolci a Volponi, passando per Ottieri, il ragionier Fantozzi e i romanzi di contemporanei come Siti, Bajani, Falco e Murgia, oltre a molti altri: su ilLibraio.it la scrittrice Evelina Santangelo compie un viaggio nella letteratura che, dal ‘900 al presente, attraverso il lavoro e le condizioni materiali di vita, ha cercato di raccontare pezzi di Paese e una più generale condizione umana ed esistenziale. Nella sua riflessione, sottolinea come resti ancora molto da raccontare: “Non più lande remote, ma parte di un sistema produttivo intensivo che si contende al ribasso pezzi di un mercato agroalimentare globalizzato, le campagne avrebbero storie emblematiche di nuove plebi da raccontare…”

Nell’Uomo flessibile Richard Sennett si chiede come in un’economia che «si alimenta di esperienze che vanno alla deriva nel tempo, da un posto all’altro, da un lavoro all’altro», in una società composta da episodi e frammenti, un essere umano possa «sviluppare una narrazione di identità e una storia della propria vita». Perché, secondo Sennett, «È soprattutto la dimensione temporale del nuovo capitalismo… a influenzare in modo più diretto le vite emotive delle persone anche fuori dal luogo di lavoro», individuando un legame sostanziale tra tempo, lavoro, identità, e offrendo così una lente che aiuta a comprendere, almeno in parte, passato e presente.

Fino ad oggi la letteratura che, attraverso il lavoro e le condizioni materiali di vita, ha cercato di raccontare pezzi di Paese, una più generale condizione umana ed esistenziale, ha indagato in modo sistematico essenzialmente due mondi: quello delle masse contadine e delle plebi disseminate in lande remote e sempre più marginali del nostro Paese, moltitudini di esistenze oscure costrette a vite disumane che Danilo Dolci definì «il sottomondo rimasto, o costretto, fuori della cultura, della storia, della stessa esistenza personale», e quello del mondo operaio, delle concentrazioni urbane, del lavoro «per tutti» pagato e sicuro in aziende organizzate con «razionalità ingegneristica», realtà in cui il lavoro routinario e stabile coronava sogni di affrancamento, di benessere materiale diffuso, ma esigeva un costo altissimo in termini di logorio fisico e psichico.

Ora, leggendo molti dei romanzi che raccontano di quel «sottomondo» abruzzese, lucano, molisano, siciliano, langarolo, hai l’impressione che questa letteratura di plebi e sottoproletariato, di poveri diavoli, si fondi su un sentimento del tempo e del lavoro che ha l’ambivalenza di una condanna, di un destino immutabile che inchioda i figli a vivere la vita dei padri e dei nonni, ma è anche una risorsa, traccia tenace di un’identità e di un senso di appartenenza. Hai l’impressione che proprio quel sentimento del tempo uguale a se stesso permette ai cafoni di Silone di raccontarsi usando il «noi» in quanto portatori di una storia comune, all’Agostino della Malora di trovare infine, per quanto amaramente, uno scopo ritornando alla terra dei patri, al Rosario di uno dei Racconti siciliani di Danilo Dolci di definirsi elencando con puntiglio le varie specie di verdure, finocchi selvatici, lumache, alludendo a un sapere tramandato che è motivo di orgoglio, fondamento di un mestiere, una forma di radicamento in una civiltà che in Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri marca tutta la sua incompatibilità con la logica ferrea del profitto aziendale che, come dirà Albino Saluggia nel Memoriale di Volponi, «non perdona gli ultimi».

Altrettanto ambiguo e ambivalente è, a ben guardare, il sentimento del tempo e dell’identità che informa il mondo dell’industria e delle fabbriche negli anni ’50 e ’60. Luoghi alienanti dominati da un’organizzazione votata all’efficienza e perseguita con un rigore psicotecnico che misura in termini di profitto anche le attitudini individuali. Gabbie cronometriche che regolano inflessibili, martellanti, i gesti e la vita triste degli operai-massa come Emma di Tempi stretti. Ingranaggi impenetrabili con «un grado di astrazione – dice Piccioli in Ingorgaggio – maggiore dell’idea di Dio» e una capacità di assoggettamento che ne fa moderni universi concentrazionari. Luoghi di potere ambiguo, smascherati da Ottieri, Parise, Volponi nei loro tratti paternalistici, velleitariamente progressisti, spaventosamente schiaccianti, capaci di generare una nevrosi autodistruttiva o un fascino talmente perverso e masochistico da portare, nella versione più paradossale e parodistica di questo universo di sottoposti, il ragionier Fantozzi a entrare voluttuoso nell’acquario degli impiegati ridotto al ruolo di triglia sotto lo sguardo accondiscendente del direttore megagalattico.

Eppure, in controluce, in alcuni di quei romanzi emerge un altro aspetto di quella rigida organizzazione del lavoro avviata nel secondo dopoguerra, dove la presenza di grandi aziende, sindacati forti, garanzie sul fronte dello stato sociale davano la possibilità di pensare al lavoro (a un lavoro che «si trovava») come a una opportunità concreta di «farsi una vita». Un aspetto in cui il tempo, la durata appunto, gioca un ruolo determinante. Perché è proprio la lunga consuetudine, il permanere in un posto di lavoro, sviluppando virtù a lungo termine come competenza e affidabilità, che permette all’operaio specializzato protagonista di Tempi stretti di conquistarsi un rispetto e una stima di cui andare orgoglioso o agli operai come Emma di andare fieri della prosperità di una ditta di cui si sentono partecipi. Sono i legami forti e stabili (oltre che una base ideologica solida e una netta distinzione delle parti in causa) che in Vogliamo tutto di Balestrini permettono all’operaio del Sud «dai mille mestieri» di edificare finalmente dentro la fabbrica una coscienza collettiva di classe.

Virtù, orgogli, coscienze collettive, senso di appartenenza che non hanno più cittadinanza in un mondo in cui i vertici delle aziende sono sempre più entità imperscrutabili dominate dall’impazienza dei capitali e dall’avidità dei guadagni rapidi che esigono altrettanto rapide ristrutturazioni (come già adombrato nel 1989 in Le mosche del capitale di Volponi); in cui le controparti presso cui fare valere le proprie ragioni sono sempre più evanescenti e aggrovigliate di interessi (finanziari, economici, politici) leciti e illeciti, disarmanti come il titolo del romanzo di Siti Resistere non serve a niente, e devastanti nelle ricadute come quell’Effetto Domino individuato con rigore millimetrico dal romanzo di Bugaro; in cui i rapporti lavorativi hanno l’aleatorietà di simulacri vuoti come le lettere di licenziamento, capolavori grotteschi di ipocrisia, immaginate da Andrea Bajani in Cordiali saluti; in cui l’orgoglio di appartenere a una qualche categoria si scontra con la realtà di una moltitudine di individui (di cui Giorgio Falco in Pausa caffè ha saputo declinare i profili umani ed esistenziali) vagamenti legati da una condizione generazione  che, a ben guardare, oggi copre un arco temporale che va dalla prima giovinezza alle soglie di quella che un tempo era la pensione; in un mondo in cui  le denominazioni stesse del lavoro più o meno dipendente da troppo tempo sono ridotte a sigle squalificanti come le mansioni avventizie richieste, nel migliore dei casi talmente lontane dalle competenze di chi è chiamato a svolgerle da ingenerare un unico paradossale pensiero positivo, confortante, e cioè di trovarsi appunto in una situazione «instabile», e dunque «transitoria» come scrive Michela Murgia nel suo diario-reportage Il mondo deve sapere.

Tutto ciò dovrebbe portare a concludere che oggi il lavoro è diventato, nell’esperienza e nell’immaginario collettivo, il luogo del tempo sospeso e delle vite irrisolte, dei rapporti occasionali, magari a breve brevissimo termine su cui non si può costruire un bel niente né come individui né come collettività. Eppure ho l’impressione che oggi ci siano storie impensabili fino a qualche tempo fa da raccontare. Lo intuisci ascoltando le scelte fatte da disoccupati, mai occupati, nuovi occupati, semioccupati, occupati in bilico, sottocupati che, per necessità, per spirito d’indipendenza, per il desiderio di misurarsi con i propri talenti, o per dar seguito a un’idea di sostenibilità che hanno trasformato in stile di vita, riscoprono passioni e ne fanno mestieri possibili (creando piccole realtà produttive o di ristorazione in biologico, specializzandosi in un artigianato di valore, riproponendo la propria professionalità di cuochi in cene sociali semi private). Lo capisci ascoltando le vicende di librai, ad esempio, che per rilanciare la propria attività – con o senza libreria – tessono pezzi di territorio per diffondere la passione della lettura con incontri ed eventi in cui il libro torna a essere un bene condiviso di grande valore immateriale. Lo sperimenti imbattendoti in reti in cui gli utenti si impegnano a scambiarsi servizi professionali gratuitamente o scoprendo piccoli siti specializzati nel riciclo di beni di consumo che andrebbero a ingrossare le discariche se non ci fosse qualcuno che si prendesse la briga di sistemarli e immetterli di nuovo nel mercato… Storie piccole magari che dicono di un bisogno serpeggiante e sempre più diffuso di riappropriarsi di uno scopo, di un’identità professionale fatta di competenza, valore, indipendenza, e che danno voce anche al desiderio di edificare forme nuove, possibili di condivisione.

Quel che invece oggi rimane largamente «imposseduto» dal sentire comune, per dirla con Vittorini, è invece l’universo delle odierne campagne di cui hanno dato conto libri-inchiesta come Servi di Rovelli e Uomini e caporali di Leogrande, ma per cui la letteratura non ha ancora trovato parole e sguardi capaci di restituirne la complessità.

Non più lande remote ma parte di un sistema produttivo intensivo che si contende al ribasso pezzi di un mercato agroalimentare globalizzato, le campagne avrebbero storie emblematiche di nuove plebi da raccontare: masse di invisibili, clandestini, un’umanità sradicata, polverizzata, che sperimenta una delle più aberranti contraddizioni di questo nostro tempo, perché manifestazione macroscopica delle più spietate dinamiche politiche ed economiche mondiali contemporanee e, parallelamente, vittima di condizioni di vita e lavoro disumane proprie di un tempo atavico fatto di schiavitù. Forse, però, bisognerà aspettare i figli o i figli-dei-figli di questo nuovo «sottomondo» per comprendere davvero la portata e il peso specifico di queste vite, che sono l’altra faccia impresentabile del nostro Paese e di questo nostro mondo (globalizzato nella finanza, nell’economie ma non nei diritti e nei valori umani non negoziabili), per avere insomma un Alex Haley capace di scrivere un nuovo moderno Radici.

L’AUTRICE – Evelina Santangelo è nata a Palermo nel 1965. Il suo ultimo libro pubblicato da Einaudi è Non va sempre così

 

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