Dall’8 al 20 settembre al LAC di Lugano va in scena (per gruppi massimo di 25 persone) il “Luna Park” di Finzi Pasca. Un percorso giocosamente vitale, eppure con un retrogusto cimiteriale e fantasmatico sulla scena che fu, che sarà e che potrebbe essere – La recensione

Invito al viaggio, questo nuovo “giro di giostra” allestito dalla compagnia Finzi Pasca al LAC di Lugano (Luna Park – come un giro di giostra è dall’8 al 20 settembre alla Palco Sala Teatro, a turno, per gruppi massimo di 25 persone) è occasione per riaprire le porte fisiche, sensoriali e immaginifiche dell’esperienza teatrale, un breve tragitto sospeso (20 minuti) del corpo e dell’anima, una suggestione ciclica e sottilmente ipnotica, nostalgica e sognante, un percorso giocosamente vitale eppure con un retrogusto cimiteriale e fantasmatico sulla scena che fu, che sarà e che potrebbe essere. Entrare dietro le quinte dello spettacolo, accedere alle casse teatrali chiuse dei numerosi allestimenti di una compagnia di teatro totale (verso i quarant’anni di attività, composta da artisti di una ventina di  nazionalità, una vocazione circense contemporanea che sintetizza teatro danza, canto, recitazione, cura affettuosa del costume, lavoro ricco e creativo sull’apparato scenografico, senso visionario e gusto poetico): in quei bauli mille e una vita, veri e propri mondi nascosti, spettacoli intimi e allestimenti olimpionici ripiegati e in letargo, come se quei contenitori fossero scatole magiche, cappelli a cilindro e cornucopie, arche di Noè e borse di Mary Poppins, ma anche prigioni di Houdini e vasi di Pandora, nella consapevolezza che, come suggerisce il testo di questa performance-installazione mobile, “è la vita che ci porta a spasso”.

Nell’armatura vuota che ci accoglie, il senso di un cavaliere inesistente nel quale rifletterci e penetrare (identificarci?), alla riscoperta del corpo esiliato di questi tempi strani e pericolosi di clausura e introspezione, o forse una metafora di un teatro che, in attesa di  essere riabitato, è un’armatura lucente ma vuota. E il corpo, in primis il nostro, condotto da una virgiliana maschera con la mascherina dentro questo esperimento di atmosfera (un po’ come l’air de Paris di duchampiana memoria), viene carezzato dai tessuti dei costumi di tante rappresentazioni, evocato e replicato dalle silhouette proiettate sul grande schermo, illuminato e avvolto da tunnel di luce, moltiplicato dalle superfici riflettenti in un gioco di rifrazione in cui “gli occhi non li si hanno mai aperti… anche quando sono spalancati” (eco del viaggio di 2001 e dell’ultimo Kubrick mascherato, che tornerà in una vettura lolitesca).

E lo stupore la tonalità affettiva fondamentale (“del lavoro filosofico” direbbe Heidegger facendo eco a Platone, ma del lavoro spettatiriale e umano, potremmo ben dire), evocato dalle parole sullo sfondo, propiziato da un testo sottile e poetico (distribuito al pubblico prima di addentrarsi in percorso di simboli e di sensazioni) di effetti e suggestioni. Un testo, del resto drammaturgicamente minimo, che passa a un livello più subliminare che consapevole, distratti/attratti come si è, fra timore e curiosità, impaccio e attesa, da luci cangianti, ombre cinesi, specchi in movimento, corridoi al neon e sipari disvelanti, pioggia di pois argentei e fumi negli occhi, immersione musicale e improvvisi tonfi di realtà.

Tre attori (una famiglia verso la villeggiatura, dice il copione) su un’auto d’epoca che odora di cinema danno corpo simbolico, ludico e allusivamemte acrobatico a questo viaggio ridotto all’essenziale, che dall’automobilina triciclica al cavallo a dondolo, dalle vestigia di un destriero marino statuario al motore a cavalli, informano questa galoppata infantile e antica (giro giro tondo), dandole una direzione sottile e allusiva, sul senso  ondivago e imprevedibile (in fondo apocalittico) di ogni tragitto: l’emozione del partire, la lacerazione dell’addio, la tristezza del ritorno, l’avventura che ci apre al cambiamento (a nuovi mondi) eppure ci espone all’incidente (all’altro mondo).

Un senso esperienziale d’incertezza, forse imbarazzo, che ci lascia interdetti e attoniti, eppure assetati e un po’ insoddisfatti da questo breve intermezzo di Altrove, questa sneak preview, (as)saggio di un mondo (quello creativo di questa compagnia teatrale, che ha collaborato con il Cirque du Soleil e allestito cerimonie sportive faraoniche, e quello più vasto della rappresentazione dal vivo, nelle sue forme più varie e possibili) che sembra quasi stare sparendo, come quello evocato (con altro pathos e forza narrativa, va detto) in un film straziante e lirico come il cartone L’illusionista di Sylvain Chomet, di cui questo allestimento immersivo ricorda un po’  il décor e il mood.

Del resto tutti conosciamo, per esperienza o per evocazione, la sensazione arrugginita ed elettrica, ma ancora in qualche modo pulsante, di un vecchio Luna Park, oggigiorno ancora più acuta e pregna di immaginario, in un mondo schermato e anestetizzato dall’estetica fuocartificiale del videogame e isolato dalla paura del contagio, dove ha luogo un altrove familiare e stupefacente insieme, promessa di divertimento e impressione d’inganno, fondale di lucine e cartapesta, montagna russa e tiro al bersaglio, casa di specchi e galleria degli orrori, paura, fortuna e meraviglia a buon mercato, vertigine breve e rovina di un brivido che, forse, fu. Un altro, un ultimo giro di giostra, chiede il bambino, in fila indiana dentro di noi.

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