Il dolore non è mai un assunto categorico, definito, univoco. D’altronde, nella vita nulla è semplicemente bianco o nero. La raccolta “Prendere o lasciare” di Lydia Millet raccoglie delle storie accomunate dalla sofferenza e, nel farlo, ricorda un dipinto impressionista: le vicende che lo compongono sono connesse tra loro ma funzionano bene anche da sole, anche se in un primo momento sembrano solo sfiorarsi…

Il nuovo libro di Lydia Millet, Prendere o lasciare, edito da NN Editore (traduzione di Gioia Guerzoni) ricorda nella struttura un dipinto impressionista: le storie che lo compongono sono interconnesse, ma funzionano bene anche da sole e in un primo momento sembrano solo sfiorarsi; allontanandosi, però, nell’avanzare della narrazione, il quadro che l’autrice dipinge si fa sempre più chiaro.

A fare da perno all’intera raccolta è Nina, agente immobiliare che, in una Los Angeles alto-borghese contemporanea, visita le case dei suoi clienti, dalle occupazioni più disparate e dai bisogni più stravaganti, ed entra inevitabilmente nella loro intimità.

Prendere o lasciare di Lydia Millet

Attraverso lo spazio della casa, tra vendite e traslochi, Millet esplora così l’identità, le emozioni e i conflitti interiori dei suoi personaggi.

Incontriamo innanzitutto una famiglia spezzata: lasciata dal marito per una donna molto più giovane di lei, la madre di Jeremy è costretta a vendere la casa in cui il ragazzo è nato e cresciuto. L’unico modo che l’adolescente ha per rifarsi sulla situazione è intralciare le visite di Nina, facendosi sorprendere mentre si masturba nella speranza di dissuadere qualunque potenziale acquirente.

Suo padre, Paul, un uomo egoista e ripiegato su stesso, ha ricominciato una nuova vita con Lora, una ragazza dalla metà dei suoi anni, prossima al parto. C’è poi Aleska, madre di Paul e nonna di Jeremy, ebrea studiosa della propaganda nazista rimasta vedova dopo il suicidio del marito e costretta da una progressiva demenza senile ad abbandonare la casa che ha amato per andare a vivere con il figlio e la sua nuova compagna.

I punti di vista dei personaggi si alternano di capitolo in capitolo e di ognuno emergono i personali desideri e fragilità. Tutti, Nina compresa, sono però accomunati dall’esperienza del dolore, tematica portante della raccolta.

Non senti il dolore di tutti? Non senti il dolore che abita in tutte le creature?, domanda a Nina sua madre, quando ha solo otto anni.

Millet è abile nel rendere sulla pagina la complessità dell’esistenza umana, cogliendo le vulnerabilità dei singoli e delle dinamiche familiari, giocando sempre con i grigi e con le sfumature. Nel libro, come nella realtà, nulla è semplicemente bianco o nero.

È il caso di Lexie, una ragazza in fuga da un passato di abusi, cresciuta nella stretta di un patrigno pedofilo ossessionato da lei, sotto lo sguardo della madre, volutamente miope alle violenze subite dalla figlia. Lexie lavora come cam-girl e conosce Jeremy online, ma presto i due ragazzi stringono un rapporto più profondo: Jeremy la fa assumere come au pair in casa di Paul e Lora, dove la ragazza trova in Aleska la figura materna che non ha mai avuto. La sua storia è tra le più crude e toccanti dell’intera raccolta, un ritratto senza filtri della violenza fisica e psicologica, nella sua pianificazione spaventosamente meticolosa, fino alla sua attuazione, in cui Millet si identifica con lucidità non solo con la vittima, ma persino con il suo carnefice.

Il profondo realismo con cui Millet descrive Nina, la famiglia di Jeremy e gli eventi di Lexie è bilanciato dall’assurdo e dall’inaspettato che invece caratterizzano alcuni capitoli che fungono da intermezzi, regalando anche momenti di leggerezza e di umorismo, seppure a tratti dark: nella storia in apertura della raccolta, una rock star che a Nina appare come la caricatura di un dittatore africano tenta il suicidio durante la visita alla sua nuova casa; in Il mostro con il becco, durante la visita a un appartamento pieno di opere d’arte, una donna innamorata scopre di essere l’amante dell’uomo che sperava di sposare; una donna-vampiro con le scorte di sangue nel congelatore e una donna convinta che la sua casa sia stata invasa da sette nani tuttofare sono le singolari protagoniste rispettivamente di Ti ho riconosciuto in questo buio e di Biancaneve.

Ma se nulla nell’esperienza umana è bianco o nero, anche la riflessione sul dolore – privato e familiare – che accompagna la narrazione deve trovare una sua controparte positiva. Per questo, Millet non dimentica di lasciare spazio alla speranza e all’empatia. I suoi personaggi sono imperfetti, sbagliano, cedono alle loro fragilità, ma sono anche in grado di aiutare gli altri, di comprendere le proprie colpe e di immaginare un futuro migliore. Per questo l’adolescente arrabbiato e insolente dei primi capitoli, può rivelarsi inaspettatamente un amico premuroso. E la donna forte, colta e sicura di sé che è Aleska non può riparare gli errori commessi con il figlio, ma può aiutare Lexie a interrompere il ciclo di violenza di cui è vittima, donandole nuova speranza e dimostrando che la famiglia può esistere al di là del legame di parentela, come scelta consapevole.

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