Scrittrice, critica, saggista, accademica, non si esauriscono le categorie per definire Maggie Nelson, tanto esaltata oltreoceano quanto poco conosciuta in Italia. Sta cambiando le regole della narrativa creando un nuovo genere, che lei definisce narrativa speculativa sperimentale, o auto-teoria, dove interseca, tra le righe del suo memoir, le parole di filosofi e personaggi popolari su questioni come il sesso, le droghe, la rappresentazione mediatica della crudeltà…

Qualcuno in un saggio accademico ha introdotto Gli Argonauti così: “la giustapposizione di amore e sesso anale con Wittgenstein e meditazioni barthesiane sui limiti del linguaggio, e questo solo nella prima pagina”. In realtà questa è proprio Maggie Nelson, autrice, poetessa, filosofa, accademica, impossibile da incasellare, quasi quanto il genere a cui appartiene la sua scrittura, per cui, anzi, si sono inventati una parola apposta pur di appiccicarci sopra qualche bollino. L’hanno chiamata “auto-teoria”, scrivono nel retro della versione americana di Gli Argonauti.

Leggere Maggie Nelson significa leggere, in parte, Maggie Nelson. Perché poi ci sono migliaia di digressioni, comparsate di filosofi, poeti, pornostar che inframezzano le parole dell’autrice, che si improvvisa la proprietaria della casa dove si sta tenendo una grande festa. La festa sarebbe in una grande villa in California, dove vive ora, e tra gli invitati potremmo individuare Susan Sontag, Michel Foucault, Patti Smith, e magari Monica Lewinsky. Converserebbero di droghe, sesso e cambiamenti climatici (come in Sulla libertà), di maternità (ne parla in Gli Argonauti), dell’ultimo caso di cronaca (Jane, A Murder), di una splendida raccolta di poesie (Bluets). E lei, penna/vassoio con i cocktail in mano, li combinerebbe tutti.

Oggi Maggie Nelson è considerata una delle scrittrici più sovversive e geniali proprio per questa sua abilità di farsi la materia prima dei suoi libri e di intesserci dentro teoria critica (con una predisposizione per quella femminista e queer), narrativa, nozioni di cultura popolare e attualità. Lei la chiama narrativa speculativa sperimentale. È sicuramente Gli Argonauti (nella traduzione di Francesca Crescentini) il suo libro più importante, anche il primo arrivato in Italia grazie a Il Saggiatore, pubblicato per la prima volta nel 2015. Come gli altri è episodico, frammentario, non ci sono capitoli ma solo una successione di paragrafi connessi da un’invisibile intuizione di Nelson.

Il titolo l’ha preso da una citazione che ha letto in Barthes secondo Roland Barthes, in cui il filosofo “descrive la persona che pronuncia per prima la frase «Ti amo» come «l’Argonauta che ripara e rinnova la sua nave durante il viaggio senza cambiarle nome, Argo”. Allo stesso modo, tutte le volte che l’innamorato dirà «Ti amo», il significato della sua dichiarazione verrà rinnovato a ogni utilizzo”.

Racconta che una volta ha dedicato questo passaggio al marito Harry Dodge, interpretandolo come una dichiarazione d’amore, ma recepito, invece, come una ritrattazione: “Prima di incontrarci, avevo creduto per una vita intera all’idea wittgensteiniana secondo la quale l’indicibile farebbe – incredibilmente! ­– parte del detto”, scrive su questa incomprensione, “Non solo le parole non sono sufficienti, ma corrodono tutto quello che c’è di bello e di vero. Tutto quello che è in divenire”.

Gli Argonauti è, infatti, un libro-conversazione sul “tracciato del divenire”, come avrebbe detto Deleuze: divenire-innamorati, Nelson stessa di Harry; divenire-madre, l’ha scritto incinta del primo figlio; divenire-uomo, parla della transizione di genere del marito, tra mastectomie e iniezioni di testosterone; divenire-figlia, di quelle che lei chiama “madri multigenere del mio cuore”, ovvero tutti gli autori e filosofi che la accompagnano nelle sue righe.

Maggie Nelson sulla libertà

Una delle sue madri multigenere è la poetessa della scuola di New York Eileen Myles, di cui ha tanto scritto nel saggio femminista Women, The New York School and Other True Abstractions, che poi in realtà è la sua tesi di dottorato. Un’altra è sua zia, Jane, che da sempre dicono che la ricordi in modo agghiacciante. Lei non lo sa, non l’ha mai conosciuta, è stata uccisa quando era all’università, di ritorno a casa dei genitori per annunciare che si sarebbe sposata, un caso diventato cronaca e mai veramente risolto. Da sempre ossessionata dalla sua morte, ne scrive in Jane: A Murder, il suo primo libro a ottenere una certa risonanza da parte della critica, anche perché è il primo che compone usando il suo metodo frammentario: c’è il racconto di non fiction, estratti del diario della zia, pagine di giornali locali, poesie che la stessa Nelson ha composto per lei.

Come succede nei suoi libri migliori, un giorno il mondo là fuori irrompe nella sua scrittura, quando la polizia la chiama, durante la stesura del libro, per dirle che, trent’anni dopo, hanno un nuovo sospetto nel caso di omicidio. Così Nelson partecipa alle indagini e poi al processo e ne esce The Red Parts (2007), dove va a fondo alla sua ossessione per la zia e a quella dei media per l’omicidio di una giovane donna carina.

Queste riflessioni in realtà vengono poi sviluppate nel brillante The Art of Cruelty: A Reckoning (2011), un saggio di critica sulla rappresentazione della brutalità. Scomoda personaggi come Francis Bacon, con le sue figure mutilate e sfigurate, la scrittura brutalmente depressiva di Sylvia Plath, quella scena problematica di Taxi Driver per domandarsi in quale misura si possano bilanciare le proprie convinzioni etiche con l’apprezzamento di un’opera forse pericolosa, ai limiti della censura. Nelson si interroga, fornisce al lettore tante chiavi di interpretazione, le parole sue e dei suoi filosofi, ma non si risponde mai.

Da tutta la vita Nelson è accompagnata da un’altra ossessione, quella per il colore blu. Al colore, che colleziona in ogni sua forma (vetro, pillole antidepressive, dildi) perché la distrae e la fa sentire meno sola e triste, dedica Bluets, la raccolta di 240 riflessioni che in realtà troverete in libreria sotto la sezione “poesia”. “75. Perlopiù sono diventata un’osservatrice della tristezza. Sto ancora cercando la bellezza in questo”, scrive mentre pensa alle miniere di lapislazzuli in Afghanistan.

Mentre osserva allo specchio una lacrima rigarle la guancia, si ricorda che in tedesco “145. Essere blu, blau sein, significa essere ubriachi” e ripensa alla poesia di Frank O’Hara “Ah daddy, I wanna stay drunk many days”. Bluets lo scrive dopo essere stata lasciata da un fidanzato, mentre si prende cura di una sua amica diventata tetraplegica, il cui unico movimento che riesce a fare è muovere gli occhi “di un azzurro violento”. “Voglio che tu sappia, se mai lo leggerai, che c’era un tempo in cui ti avrei voluto al mio fianco più di tutto il blu del mondo. Ma ora tu mi parli dell’amore come se fosse una consolazione. Ci aveva avvertiti Simone Weil: «L’amore è luce»”.

Arriviamo così a Sulla libertà, il secondo libro di Nelson tradotto in Italia (da Alessandra Castellazzi), uscito lo scorso ottobre per il Saggiatore. Quando ne parla, definisce il saggio di teoria critica un “canto di amore e di rinuncia”; ha iniziato a pensarci, in effetti, quando gli americani si sono ribellati all’obbligo vaccinale e di indossare le mascherine facendo leva sul loro diritto alla libertà individuale. Si chiede quali possano essere, citando Foucault, “le pratiche di libertà che apre la liberazione” odierna degli ambiti del sesso, delle droghe, dell’arte e del clima, “dove la coesistenza tra libertà, cura, costrizioni mi sembra particolarmente spinosa e intensa” perché aggrovigliata al concetto di illibertà, compulsione, possibilità e abbandono. Riuscitissimo il capitolo sul sesso, “La ballata dell’ottimismo sessuale”, dove si interroga sulla liberazione sessuale dei nuovi movimenti femministi (ma il sesso non piace a tutti, quindi non può essere un araldo di libertà, dice), facendosi strada tra le parole degli articoli di Cosmopolitan, quelle di Foucault e di Monica Lewinsky.

E poi in mezzo c’è la sua voce, che conduce i vari frammenti di discorso di quella festa spettacolare che è la sua opera con lo scopo di “sovvertire la torre d’avorio che è il mondo accademico”, come dice in un’intervista, “è vero, la mia voce non riuscirà a mantenere una posizione di padronanza. Sarà soggettivo e forse anche un po’ incasinato”, ed è per questo che Maggie Nelson riesce ad accontentare tutti, il mondo universitario quanto Instagram, dove ogni tanto si avvistano tote bag di un azzurro cielo con qualche citazione di Bluets ricamata sopra.

Fotografia header: Maggie Nelson getty editorial 18-11-2021

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