“Mai e poi mai il fuoco” della scrittrice cilena Diamela Eltit racconta la tragedia di un’epoca e un’intera generazione, mettendo in scena la decadenza e l’isolamento di una coppia di ex militanti politici, chiusi in una casa a cercare di ripercorrere in un presente devastato il loro passato di lotte e di amore

Una donna senza nome passa la maggior parte del suo tempo chiusa in una stanza, vicina – troppo vicina – a un uomo che forse una volta ha amato e che adesso le appare come una presenza quasi ostile. Sono gli ultimi sopravvissuti di un gruppo di militanti rivoluzionari, il residuo di un’epoca di lotte e speranze ora annichilita, distrutta da un nuovo secolo che ha fatto piazza pulita della passione politica, lasciando a chi ci aveva creduto solo delle macerie. E loro stessi, uomo e donna costretti alla clandestinità, sono ormai forme svuotate, fantasmi sconfitti, fuori dallo spazio e dal tempo. Rinchiusi in un isolamento totale, devono fare i conti con un passato che riemerge in maniera sempre più allucinata e con la loro decadenza fisica ed emotiva.

Copertina del libro Mai e poi mai

Mai e poi mai il fuoco, della scrittrice cilena Diamela Eltit, pubblicato da Gran Vía nella traduzione di Raul Schenardi, è il racconto, per voce della donna, di un disfacimento. A crollare, in maniera lenta e inesorabile, sono due figure che riflettono la morte di un periodo storico e con esso di un’idea di mondo. La narrazione scivola in un flusso allo stesso tempo esausto e inarrestabile, che trascina con sé ogni cosa sullo sfondo della quotidianità in decomposizione cui sono consegnati i protagonisti.

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Hanno lottato, hanno amato, progettato e discusso, e ora si ritrovano abbandonati in un mondo nemico, mentre lo strettissimo, obbligato contatto dei loro corpi si traduce via via in una sempre maggiore distanza affettiva. Tra i ricordi, frammentari e dolorosi, si insinuano sospetti di tradimento. La cellula, quell’organizzazione cui loro hanno dedicato la vita, diventa adesso una parodia grottesca dell’atomo chiuso e vuoto che la coppia è diventata.

“Il silenzio, il tuo, il nostro, un silenzio larvale che aspetta, aspetta, che si consegna fedelmente al tempo, perché ora siamo corpi parole, corpi, sì, parole. Potremmo cedere, ma non vogliamo o non sappiamo più come cedere, come farlo, a chi arrenderci o che cosa rendere di noi, a chi consegnare il nostro arsenale di esperienze e di pratiche a lungo coltivate”.

Frammista alla dissoluzione del loro spazio comune e politico affiora la tragedia personale, la morte di un figlio piccolo. Un evento che ritorna, infesta le rievocazioni della donna, agita e turba i loro sonni come un fantasma malvagio. La protagonista esce di casa poche volte, e solo per lavorare e guadagnare quel poco che serve per tirare avanti. Il suo compito è lavare e accudire anziani non autosufficienti, e nel loro sfascio trova riflesso il proprio decadimento, nel dolore e nell’umiliazione della vecchiaia scopre la stessa sensazione di smarrimento e corruzione che avvolge le sue giornate monotone, nelle quali si ripete una liturgia di sterile sopravvivenza.

Il romanzo, lascia volutamente in ombra fatti storici e collocazioni specifiche. Mentre la voce della donna ripercorre la sua partecipazione agli eventi politici e le proprie private dannazioni, confondendole e sovrapponendole, rievoca vaghe indicazioni storiche e frammenti di una retorica militante che appare adesso così lontana. Lei compie un continuo sforzo – a volte ai limiti del delirio – per strappare degli eventi all’oblio, fissarli e indagarne le cause, provare a capirli o a reinterpretarli. L’uomo invece è un involucro amorfo e fiacco, quasi sempre sdraiato su un letto inospitale che non è mai un rifugio. Resta silenzioso e refrattario a ogni stimolo, cercando disperatamente di inseguire il sonno, la sua sola via di fuga.

Come se i due innamorati e combattenti fossero già morti, e guardassero la loro vita passata senza poter comunicare più con essa, così come tra loro stessi. Intorno a loro tutto si restringe, i gesti si riducono all’osso, e sono scomparsi gli amici e i compagni di un tempo. Ne restano soltanto i nomi, ombre che si muovono in uno spazio ambiguo.

Mai e poi mai il fuoco racconta la tragedia di un fallimento storico, il crollo dell’utopia che trascina con sé i sentimenti e le relazioni, lasciando uomini e donne sconfitti alla soglia di un secolo che si annuncia ancora più crudele e desolato del precedente. La resa delle anime e dei corpi tiene in vita solo una voce, sempre più flebile, che prova a ripercorrere quello che è stato per cercare disperatamente un contatto, un senso comune, la prova dell’amore di un tempo.

Fotografia header: La scrittrice cilena Diamela Eltit (foto di Miguel Sayago Alarmy)

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