In “Fare femminismo”, Giulia Siviero, intervistata su ilLibraio.it da Giusi Marchetta, ricostruisce la complessità e l’originalità dei femminismi, tracciando un percorso che tiene insieme rivendicazioni storiche e maturate in culture diverse con istanze di feroce attualità: “I corpi delle donne e delle soggettività che si discostano dalla cosiddetta norma non hanno mai smesso di essere un campo di battaglia…” – Il dialogo, in cui si toccano numerose tematiche, dal diritto all’aborto alle madres argentine di Plaza de Majo

Leggere Fare femminismo di Giulia Siviero (nottetempo) offre la preziosa opportunità di entrare in contatto con la storia di movimenti, associazioni e di singole personalità che hanno fatto della propria voce e del proprio corpo strumento di riflessione, di autodeterminazione e di lotta al patriarcato.

Fare femminismo giulia siviero

GLI APPUNTAMENTI AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO – Giulia Siviero presenta il suo saggio l’11 maggio al Salone, alle ore 14.30, ospite di Arena Robinson, e alle ore 19.15 all’Arena Bookstock con Jennifer Guerra e Tiziana Triana;

Nella sua incisività, attraverso una felice e ricca selezione di episodi, il saggio ricostruisce la complessità e l’originalità dei femminismi tracciando in modo efficace un percorso che tiene insieme rivendicazioni storiche e maturate in culture diverse con istanze di feroce attualità.

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Si tratta di un mosaico vario presentato con la stessa chiara abilità di approfondire temi importanti a cui hanno fatto l’abitudine lettrici e lettori di Siviero che la seguono su Il Post e Il Manifesto. Da femminista interessata ad andare alla radice del problema dei rapporti di potere tra soggettività diverse, l’autrice si serve da anni degli strumenti del giornalismo per indagare l’attualità interrogandosi continuamente sul modo in cui questa battaglia si rinnova e su quanto i femminismi del passato abbiano ancora da dire sul presente. Anche per questo sono molto grata alla disponibilità che ha dimostrato nel rispondere alle domande dell’intervista che segue e per i moltissimi spunti alla luce dei quali rileggere il suo e gli altri saggi sull’argomento.

Il tuo libro prende le mosse dalla battaglia per il diritto di abortire e dal ruolo delle parole in questo percorso. Dalle autodenunce degli anni Settanta, che spaccano il movimento femminista, ai processi che mettono al centro le testimonianze delle donne, la decisione di parlare pubblicamente di una pratica che Stato e Chiesa consideravano più vantaggioso persistesse di nascosto ha significato un cambiamento di paradigma sul tema: parola e autocoscienza “rimettono al mondo” le donne come soggetti liberi; non più parlate, le donne possono sfilarsi le lenti consegnate loro dagli uomini, osservare se stesse, produrre azioni che smantellino il sistema che le opprime. Dall’Est europeo agli Stati Uniti, fino alle recenti iniziative del governo volte a limitare il diritto di aborto, sembra che si torni a mettere in discussione quanto ottenuto finora. In che modo pensi si stiano evolvendo le cose e in che modo da femminista è necessario riprendere la parola oggi?
“I corpi delle donne e delle soggettività che si discostano dalla cosiddetta norma non hanno mai smesso di essere un campo di battaglia, perché sono sempre stati e restano corpi sovversivi: sono dunque un bersaglio, ma anche uno strumento per fondare politiche identitarie e razziste. L’attacco viene oggi da più parti, capaci di allearsi: dalle destre radicali e dagli integralismi religiosi. Pensiamo agli Stati Uniti, con il rovesciamento della Roe v. Wade, alla Polonia che ora, con il nuovo governo, sta provando a intervenire di nuovo sull’aborto per renderlo accessibile. Possiamo citare anche l’Ungheria, dove da mesi le donne che vogliono abortire sono obbligate a sentire il battito cardiaco del feto. E poi c’è l’Argentina di Milei, dove il nuovo presidente ha vietato l’uso del linguaggio inclusivo, è contro l’educazione sessuale nelle scuole, ha eliminato il ministero delle Donne, dei Generi e della Diversità e ha presentato una proposta per abrogare la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, approvata nel dicembre 2020 dopo una grande mobilitazione dei movimenti femministi. Infine, c’è l’Italia. La presidente Meloni ha negato che qui ci siano problemi di accessibilità all’interruzione di gravidanza, difende l’obiezione di coscienza, mette sullo stesso piano la libertà di abortire e quella dei medici di fare obiezione e fin da subito ha detto di non voler né abolire né modificare la legge 194, ma di volerla applicare pienamente. Questo è un problema”.

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Spiegaci perché.
“Perché di fatto la legge contiene già tutto ciò che può ostacolare e di fatto ostacola un libero accesso all’aborto: l’abbiamo visto con l’approvazione del recente emendamento presentato da Fratelli d’Italia che finanzia con i soldi del PNRR l’intrusione degli anti-scelta nei consultori. Ma ben prima che Meloni diventasse presidente del consiglio le destre al governo di varie regioni o comuni avevano già cominciato a lavorare per svuotare la 194: a lavorare per limitare l’accesso all’aborto farmacologico, oppure per sostenere formalmente natalità e maternità attraverso precise proposte di legge che portano avanti implicite finalità contro l’autodeterminazione riproduttiva, come ad esempio l’istituzione di fondi di pagare le donne per portare a termine la gravidanza. C’è poi l’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco presieduta da una persona voluta da Matteo Salvini, che ha bloccato l’accesso gratuito alla contraccezione, o ci sono stati diversi interventi del governo per limitare i diritti delle coppie omogenitoriali. Più in generale, pensiamo ancora a come viene trattata la violenza maschile di genere – cioè come un problema securitario -, con un approccio emergenziale e punitivo, senza invece alcun pensiero sullo scardinamento dei meccanismi che riproducono la società patriarcale. Va aggiunto che c’è tutto quello che non è stato fatto, e non solo dal governo Meloni, ma da chi l’ha preceduta”.

E cioè?
“Praticamente nulla, né per trasformare la cultura nei luoghi dove si fa informazione o dove ci si educa, né per cambiare le strutture materiali che fanno sì che ancora oggi le donne in Italia e nel mondo siano in posizioni subalterne. I femminismi hanno ovunque riempito le piazze, negli ultimi anni, e preso parola per contrastare tutto questo. Penso però che, accanto alla rivendicazione o alla difesa di un diritto, vada recuperato il pensiero di parte del femminismo degli anni Settanta, che praticava il rovesciamento dell’esistente e superava o tentava di superare i confini e i termini già dati della politica: cosa succede nella mediazione con le istituzioni? Non si è dimostrata sempre al ribasso? Bastano delle ‘buone leggi’ se poi le cose non cambiano realmente a livello sociale e materiale? Una politica femminista basata solo su richieste rivendicative non pone le donne e le altre soggettività sempre in una situazione di debolezza e precarietà? Credo che vada riaperta la questione su quali siano i nostri obiettivi e le nostre pratiche e credo anche che la direzione indicata da alcune azioni femministe radicali degli ultimissimi anni, come la riappropriazione di spazi o l’apertura di consultorie autogestite, possa essere buona ed efficace: pratiche di autodeterminazione che riallacciano i fili con il desiderio, con l’impensabile, con qualcosa di aperto e di non condizionabile dall’esterno. Possiamo inventarcene altre”.

Ad esempio?
“Organizzarci per svuotare, anche noi, dall’esterno gli strumenti e i sistemi che le associazioni anti-scelta hanno messo in campo: se le donne incinte che vogliono portare a termine la gravidanza, perché voluta, si presentassero in massa per farsi dare i soldi dai movimenti antiabortisti disposti a pagare per questo stesso obiettivo? Non faremmo saltare un pezzettino di quel sistema?”.

Dopo la cosiddetta prima ondata del femminismo che, dalla fine del Settecento al 1960 circa, aveva come obiettivo principale la conquista di pari diritti secondo la legge, la seconda ondata nasce e si sviluppa in un momento storico caratterizzato dalla ricerca di culture alternative a quella occidentale, dalla ribellione verso l’ordine costituito (…) ma diventa subito chiaro che gli slogan sessantottini che compaiono sui muri e che dicono ‘vietato vietare’ o ‘spassatevela senza freni’ per alcuni sono validi e per altre no: all’interno dei movimenti antiautoritari, infatti, le questioni femministe non passano e le donne vengono tenute lontane dalla partecipazione politica sostanziale. Da angeli del focolare si tramutano in angeli del ciclostile”.  La risposta di Carla Lonzi, Elvira Banotti e Carla Accardi è il famoso Manifesto contro i miti della verginità della famiglia in favore dell’autocoscienza e del separatismo. Le esperienze successive, che rimarcano la necessità di un’autonomia dei movimenti di liberazione femministi da soggetti come il maschio bianco eterosessuale, offrono molti spunti di riflessione sull’uso della sessualità come strumento di lotta o sul ruolo di quelli che oggi chiameremmo alleati della causa femminista, e che, però, non sono oggetto nella stessa misura della violenza patriarcale. Ti chiedo quindi, innanzitutto, come consideri il concetto di separatismo nella lotta e se oggi questo tipo di azione radicale ti sembra possa essere abbracciata e come. A questo proposito nel tuo libro dichiari l’importanza delle soggettività altre e delle loro lotte. In che rapporti con il percorso femminista ti sembrano essere movimenti come quello della comunità Lgbtqia che, soprattutto negli ultimi anni, si è spesso fatta portavoce delle rivendicazioni transfemministe non solo in modo solidale ma intrecciato negli intenti e nella intersezionalità delle richieste?
“Il separatismo è stato un passaggio fondamentale per i movimenti femministi o parte dei movimenti femministi che ci hanno precedute. Ha consentito di prendere in mano la propria condizione e ha dato esistenza a un’assenza, per citare Carla Lonzi: ‘Ogni oppresso deve prima affermarsi nella libertà della sua ribellione e accettare da questa posizione di forza il confronto. Includere i maschi ci costringeva a misurarci di nuovo sul terreno e coi metodi del nostro oppressore’, scriveva a sua volta il Cerchio Spezzato di Trento negli anni Settanta. La separazione nasceva da un disagio profondo e dall’estraneità verso i modi, i linguaggi, le pratiche e i progetti condivisi fino a un certo punto con il movimento misto. Ma nasceva in positivo anche dalla volontà di trovare, nella relazione con altre donne, le parole per parlare di sé e del mondo partendo dalla propria esperienza. Il separatismo credo possa mantenere ancora oggi questa sua carica feconda, ma credo anche che debba restare solo parte del percorso, nella consapevolezza che la mappa delle differenti forme di sfruttamento e di violenza è complessa e che la lotta si rafforza nelle alleanze e nella tessitura di legami e intersezioni proprio là dove il potere pretende di ordinare separando. La pratica dello sciopero, come l’ha risignificato Ni Una Menos in Argentina e poi Non Una di Meno in Italia, lo mostra chiaramente. L’intersezionalità permette di fare due cose”.

Quali.
“Capire che il capitalismo non è solo un sistema economico e che, anzi, si struttura sulla distinzione tra ciò che è veramente economico e ciò che non lo è, come il lavoro di cura e quello necessario per partorire e crescere bambini e bambine. Allargare la visione del capitalismo dà la possibilità di aprire il ventaglio degli assi di dominazione e questo permette di vedere, e faccio solo degli esempi, quanto le battaglie per i diritti civili delle persone trans siano legate alle battaglie sul lavoro, o quanto la lotta per un aborto libero accessibile e gratuito sia legato alla condizione delle persone razzializzate. La seconda cosa che fa l’intersezionalità è metterci in guardia: non ammaliamoci di dirittismo, non abbandoniamoci alla sola logica dei diritti civili, non esauriamo la lotta nella sola rivendicazione o nella sola richiesta di soluzioni giuridiche. Il diritto non è una garanzia, è precario se svuotato dal lavoro sociale, se cioè accanto ai diritti mancano gli strumenti materiali per esercitarli in piena libertà. Una legge può aiutare e non sto dicendo di farne a meno, ma cerchiamo di riguadagnare una posizione anche critica verso le istituzioni e ciò che possono concedere. I diritti civili non sono tutto, e possono agire perfino come un alibi per non fare l’essenziale, che viene prima e va oltre il riconoscimento di una legge”.

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Tra le pagine più interessanti del libro c’è la ricostruzione della lotta delle suffragiste inglesi. “Ma com’è possibile acconsentire e stare alle regole di un gioco in cui si perde sempre? Non si può, e alcuni femminismi ritirano il tacito consenso a queste regole di convivenza e smettono di schivare le conseguenze del patriarcato sostituendo la speranza che le cose cambino con la forza necessaria a cambiarle. Individuano dunque nell’azione diretta ed efficace che si colloca fuori dalle logiche istituzionali una molla per la loro pratica politica: antagonista e liberatoria. Di fronte all’uso violento del potere non rinunciano alla forza, rifiutano la pacificazione, praticano il conflitto, la sfida e la disobbedienza”. Prende forma una lotta basata sulla guerriglia e la resistenza all’ulteriore violenza della polizia e della società civile che vuole le suffragiste/ femministe più docili e pronte al compromesso. Che ruolo pensi abbia avuto questa guerra dichiarata al sistema per cui tante hanno pagato con la loro vita? E quale riflessione ti hanno ispirato rispetto al presente le storie di queste combattenti?
“Come scrivo nel libro, le pratiche femministe nascono da esperienze pensate, discusse e agite con altre e sono incommensurabili: non hanno come propria misura l’efficacia della politica tradizionale, ma il cambiamento delle vite reali. Questa è stata la politica più radicale delle donne: non governare l’esistente, ma fare la differenza, avere cura delle condizioni perché libertà ci sia, per le donne e per ogni soggettività. La radicalità è necessaria, nonostante abbia storicamente spaccato il movimento, fin dagli inizi, a partire dalle suffragiste: non solo per quanto riguarda le pratiche ma anche nella lettura della realtà. Un pezzo di femminismo si è dato come obiettivo quello di scalare le strutture patriarcali pensando che fossero emendabili. Un’altra parte di femminismo pensa che il sistema patriarcale vada rovesciato. E visto che le strutture di oppressione e di violenza sono spesso la legalità quel che serve va oltre la via legale. La contrapposizione al sistema deve essere dunque radicale, non controllabile e, come dicevano le Rote Zora tra gli anni Settanta e Novanta nella Repubblica Federale Tedesca, ‘non deve fermarsi ai limiti posti dallo Stato: deve continuare a “minacciare la tranquillità nel cuore della bestia’. Disimparare a non battersi e fare il funerale alla femminilità tradizionale la cui costruzione si basa su una serie di codici comportamentali fatti di mansuetudine, docilità, buona educazione, pace e pacificazione è già di per sé una leva per la liberazione. Questo ribalta le dicotomie vittima-carnefice, porta a riposizionarsi nel mondo non come oggetti né come soggetti vulnerabili, toglie il terreno da sotto i piedi di chi i paradigmi di genere li ha costruiti. Non agire con tutta la forza necessaria ha finito invece per diventare funzionale alla neutralizzazione delle stesse pratiche femministe e dei loro contenuti”.

Arrestata e messa a processo, Pankhurst “riassume alla giuria la storia di decenni di agitazioni morbide e pacifiche che si erano però dimostrate inefficaci”. Lo fa perché ha bisogno di informare una platea ignorante della storia che le donne stavano facendo in quegli anni. Se all’epoca la stampa che ignorava le proteste del movimento femminista poteva essere parte in causa di quell’ignoranza mi chiedo se non facciamo anche oggi un buon lavoro di insabbiamento continuando a evitare la storia del femminismo a scuola. Eppure abbiamo molti più libri e prodotti culturali che affrontano il tema. Pensi che la diffusione delle informazioni sull’argomento oggi ci renda più responsabili che in passato della nostra consapevolezza sul tema?
“Penso innanzitutto che non dobbiamo cedere a un pensiero molto diffuso che legge la nostra realtà come se si trattasse di un ritorno al passato o di un ritorno al Medioevo. Come se si trattasse dunque semplicemente di andare avanti o indietro sulla linea del tempo. Quella a cui assistiamo oggi è un’ondata reazionaria, una risposta reattiva per rimettere le donne al loro posto, quelle donne e quelle soggettività che hanno violato i valori familiari tradizionali o la legge divina, che hanno scardinato un’autorità paterna che ora si vuole invece riaffermare. Leggere il tutto come un semplice ritorno al passato non solo non spiega la situazione, ma toglie peso e valore al lavoro decennale dei movimenti femministi. Il contesto patriarcale è ancora oggi alimentato dall’educazione, dai libri di scuola, dai giocattoli, dal linguaggio, dalla pubblicità, dalle rappresentazioni sui media. E i media, in cui lavoro anch’io, sono spesso complici di una narrazione sbagliata e della neutralizzazione delle lotte femministe: raccontano il femminismo come un blocco unico, lo evocano con un riferimento collettivo e pieno di vaghezza e lo identificano con il femminismo liberale, o di stato, che per alcune, me compresa, è però parte del problema perché si concentra sul rompere il soffitto di cristallo, è per poche privilegiate, lavora sull’empowerment, si propone di dare potere a donne di talento affinché raggiungano la vetta dove stanno gli uomini. L’altro grande interesse dei media è il femminismo che potremmo chiamare individuale, magari di qualche personaggio famoso: libero me stessa, decido di vestirmi come voglio, uso degli slogan, decido come vivere il mio desiderio, ma non inserisco questo nella lotta collettiva né trasformativa. Questi modi impropri di raccontare sono ripetuti con estenuante e ossessiva frequenza. Gli strumenti per dare in modo corretto una notizia e per parlare bene esistono. Nonostante questo, certe narrazioni, certe parole e certi schemi persistono. Perché? È chiaro che c’è qualcosa di più. Resta fondamentale, per chi vuole opporsi a tutto questo, cominciare a leggere tutte queste azioni per quello che sono: non sono sciatteria, l’obiettivo è che il discorso dominante rimanga quello dei dominanti”.

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Una delle parole che più ricorrono nel testo è l’aggettivo “radicale”. Ti chiedo cosa rappresenti per te questa parola e cosa abbia il potere di evocare se associata al femminismo.
“Questo è il mio posizionamento, che dichiaro fin dall’inizio. Lo intendo in un duplice modo: significa innanzitutto andare alla radice del problema e mettere quello al centro della propria lotta, lasciando da parte compromessi e soluzioni di superficie che spesso sono funzionali all’incorporazione delle istanze e delle lotte all’interno di un sistema che ha fatto delle donne un oggetto delle politiche pubbliche. Dall’altra parte significa recuperare la forza delle nostre azioni, non cedere all’ideologia legalitaria nella quale la norma diviene un feticcio, un assoluto dal valore universale e privo di legami con il potere che l’ha emanata. Tale ideologia esclude qualsiasi possibilità reale di critica e contestazione, e spesso si combina alla religione della non violenza: si scorda di chi, in regime di monopolio e per contratto sociale, esercita una violenza primaria, confonde la causa con gli effetti, e la violenza di chi subisce con quella di chi aggredisce. Di fronte all’uso violento del potere non rinunciamo alla forza, rifiutiamo la pacificazione, pratichiamo il conflitto, la sfida e la disobbedienza. E respingiamo il galateo dell’oppressione stabilito dagli oppressori, mettendo in scacco coloro che pretendono civiltà di fronte al suo esatto contrario. Per superare la scelta tra il ricorso allo Stato e la rassegnazione alla vulnerabilità, torniamo a mettere a tema il difendersi attaccando, almeno quanto basta”.

Il libro è davvero prezioso nel restituirci un pezzo importante della nostra storia. Ti chiedo su una nota personale quale dei movimenti o degli eventi che hai raccontato è rimasto con te più a lungo e pensi sia necessario ricordare per aiutarci ad affrontare il presente per quanto possibile facendo in modo che l’impossibile, se pur più tardi, possa arrivare.
“Nel libro ci sono storie dalla storia del femminismo e storie dai movimenti delle donne che non si sono dichiarate femministe. È il caso delle madres argentine di Plaza de Majo il cui slogan ‘l’impossibile tarda solo un po’ di più’ mi sembra luminoso. Quando nelle loro famiglie irrompe la scomparsa dei loro figli e delle loro figlie, queste donne si aprono a una nuova relazione con il mondo. Reagiscono uscendo dalle mura domestiche, fanno la loro comparsa nella storia, trasgrediscono e, allo stesso tempo, aggrediscono non solo la legge degli assassini, ma anche quella dei padri. Decidono di non piangere mai pubblicamente i desaparecidos, si sottraggono alla norma sociale che le vorrebbe rassegnate e sopraffatte dal dolore. E mentre parte del femminismo dichiara che le donne si debbano liberare dalla procreazione, loro collocano la maternità al centro della lotta e della dimensione pubblica: rimettono in gioco quella funzione materna tanto esaltata dalla retorica della dittatura e la ribaltano, la moltiplicano, la portano all’eccesso facendosi politicamente madri di tutti e di tutte. E rovesciano il reale, fanno ciò che è inconcepibile che delle madri facciano e inventano nuove pratiche di lotta che convertono, in un continuo gioco al rialzo, le costrizioni in sfide e libertà. Soprattutto, e mi sembra necessario sottolinearlo oggi che è in corso il genocidio del popolo palestinese, dimostrano che può esistere un altro tipo di memoria. La memoria delle madres vuole restare viva, aperta, dinamica, non si ripiega su se stessa, ma fa posto a tutti, rivive in ogni blocco stradale, in ogni mobilitazione, in ogni richiesta di giustizia, in ogni giovedì che ancora oggi trascorrono in piazza dando voce e sostegno a lotte altre, decentrando da sé il dolore e la sofferenza che hanno subito affinché non colpisca più nessuno e nessuna”.

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Fotografia header: Giulia Siviero, credit Diego Figone

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