“L’andare di Mario Rigoni Stern era quello di un antico profeta che si lascia alle spalle le protezioni della conoscenza
intellettuale, per cercare nell’oscurità del bosco o nel chiarore delle radure una ragione meno astratta dell’essere
al mondo”. Un breve saggio di Paolo Lanaro dedicato al grande scrittore

ANDARE IN GALMARARA *

Mario Rigoni Stern partiva ogni tanto dalla sua casa, appena sopra l’aeroporto di Asiago, e saliva le rampe dello Zebio. È un luogo ricordato anche da Emilio Lussu perché lì combatteva la Brigata Sassari e perché lassù, nel giugno del ’17, esplosero dieci quintali di dinamite che fecero franare mezza montagna, seppellendo un centinaio di soldati italiani. Si indagò a lungo su quella tragedia: chi fece scoppiare la mina? In quel momento le linee correvano proprio sotto lo Zebio, mentre la parte settentrionale dell’Altipiano era occupata dalle truppe austro-ungariche. Gli italiani avevano scavato una galleria che doveva servire da appoggio a un eventuale attacco e che per questo, nella parte terminale, era stata dotata di una camera di scoppio.

Era l’otto di giugno. Una lieve brezza accarezzava le cime degli abeti e raddolciva il calore dell’estate ormai imminente. Di colpo il silenzio dell’ora pomeridiana fu spezzato da una deflagrazione spaventosa. Uno dei rari sopravvissuti raccontò che fu molto peggio di un terremoto. La terra si sollevò come se nel sottosuolo un dio assalito dalla collera avesse sferrato alle rocce un pugno di una potenza incommensurabile. Qua e là si aprirono crepacci, il bosco fu investito da un’onda d’urto di forza inaudita. Poi una luce di tramonto, un’immobilità assoluta, un gelo da apocalisse. E una sensazione di vuoto, per quei pochi rimasti vivi, che comprimeva le budella e scolorava gli occhi.

Oggi, lassù, c’è un monumento, uno dei tanti che sono stati costruiti nelle zone di guerra per ricordare un combattimento, una strage, un atto di eroismo. A volte sono costruzioni poderose, come gli ossari, dove vengono riuniti i resti di migliaia di morti. A volte invece, come sullo Zebio, l’opera è più modesta. Una stele, un’iscrizione, uno spazio delimitato intorno che ricorda il recinto sacro che i Greci creavano intorno al tempio e che testimoniava come gli dèi operino in modo enigmaticosui destini umani, causando talvolta dolori e lutti incomprensibili.

Una decina d’anni dopo la fine della Grande Guerra, Mario Rigoni Stern è un ragazzino che gira con il padre
per le malghe dell’Altipiano per rifornire i malgari di sale, olio e farina in cambio di burro. Spesso si addormenta nel biroccio e suo padre lo lascia dormire. Quando si sveglia non si rende conto di come si sia andati e venuti dallo Zebio in un batter d’occhio. In realtà è trascorsamezza giornata e Mario non se ne è accorto, intento a sognare cacce e inseguimenti per valli e selve come in un poema pastorale. La strada per salire allo Zebio è rimasta anche oggi la stessa: una carrareccia militare dalle pendenze abbastanza morbide. A metà della salita si lascia la strada principale e ci si inoltra per un viottolo sassoso. Dopo un tratto ripido il sentiero spiana, costeggia una pozza di acqua lutulenta e poi si perde in mezzo all’erba. Il vento fa ondeggiare le spighe di pidocchiaria e i ciuffi di santoreggia. Il sole fende con coltellate di luce il nero del bosco. La piccola conca dove sorge la malga Zebio è vicina. I faggi cominciano a diradarsi per lasciare il posto agli abeti rossi, ai mughi, ai ginepri. Gli alberi sembrano sussurrare qualcosa, quasi fossero provvisti di un meccanismo nervoso che li fa allarmare, gioire, soffrire come noi. Bergson ci credeva, convinto che lo slancio vitale fossel’essenza di ogni creatura e di ogni evento. E dunque anche gli alberi avrebbero una loro forma di sensibilità, se non addirittura di intelligenza.

Quando Mario andava in val Galmarara, si fermava a fare due chiacchiere coi malgari dello Zebio, assaggiava un po’ di caglio e poi proseguiva per lo Zingarella. Dopo un tratto ghiaioso faceva la sua comparsa il «plattabeck», una specie di lastrico naturale che ricordava il selciato della città. Mario si fermava ad ascoltare il concerto che
animali e arbusti eseguivano durante le ore silenziose del mezzogiorno. Intanto scrutava il cielo, gli ammassi fioccosi di nuvole dalle forme bizzarre: torte, pupazzi, castelli. Conosceva bene le nuvole, quando erano innocue e quando erano minacciose. I Cimbri, l’antico popolo dell’Altipiano, dicevano: «De sàit gahìlbartzich», si rannuvola.

A Mario sembrava un oltremondo fantastico e, quando era malinconico, un corteo di cenotafi candidi
che custodivano chissà quali segreti. Ma bastava fissarle un po’ più a lungo per accorgersi che le nuvole si sciolgono e si ricompongono in un interminabile gioco di sparizioni e disvelamenti. Sulle pendici meridionali dello Zingarella c’è una grande voragine in fondo alla quale, anche nei mesi estivi, c’è il ghiaccio. Le pareti della stanza più profonda sono ricoperte da frange e festoni che sembrano realizzati da un decoratore. Pare una piccola reggia invernale, dove il tempo è stato immobilizzato e dove i sogni sono diventati dei cristalli opalescenti. La val Galmarara è ormai a pochi passi. Si comincia a scendere e i boschi assumono una strana aria misteriosa. «Dar bal rüstet de perghe un ghit herbighe in bögallen», recita un antico proverbio cimbro. Il bosco veste i monti e dà asilo agli uccelli. Là Mario andava a caccia, ma non solo: vagava per quei sentieri col carico dolce-amaro dei suoi ricordi. La caccia più di qualche volta era un pretesto per lasciarsi catturare da una solitudine perfetta e intangibile. Spesso, diceva Mario, dopo ore e ore di cammino in mezzo alla neve, si scaricavano un paio di colpi in aria in onore di francolini e forcelli e si tornava a casa esausti, col carniere vuoto.

Tra gli animali che popolano le pagine di Rigoni Stern ce n’è uno che ha un rilievo tutto particolare. È il gallo cedrone. I racconti che se ne facevano all’Albergo alla Rosa affascinavano il piccolo Mario, che accarezzava con gli occhi i trofei che venivano esposti alla domenica sera: le penne verdi-blu del petto, il nero-ardesia della testa, le macchie rosso-cupo sopra gli occhi, l’avorio antico del becco. Poche cose facevano venire il batticuore come il battito d’ali del gallo cedrone. I vecchi raccontavano a Mario che era un uccello eterno. C’era infatti una foresta immensa in mezzo a cui sorgeva un monolito altissimo dove il gallo cedrone andava ogni mille anni a ripulirsi il becco. I vecchi dicevano che quando la gigantesca colonna si fosse interamente consumata voleva dire che era trascorso un secondo. Quella era l’eternità, interminabile come un numero smisurato di scalfitture nella pietra. Rigoni Stern ha scritto che il gallo cedrone al mattino scende dagli alberi per mangiare bacche e germogli e poi si mette a cantare. Ma c’è un istante in cui, sprofondato nell’intensità dei suoi vocalizzi, il gallo non si accorge di nulla. Stregato dal proprio canto, dimentica l’innato senso di allarme che lo tiene lontano dal pericolo. Quello è l’attimo in cui il cacciatore si avvicina per infliggergli il colpo fatale. Un filosofo direbbe che la morte piomba
giusto nel momento in cui il gallo cedrone riesce a comprendere fino in fondo la propria vita.

Quando ci si trova nel mezzo della val Galmarara, si ha la sensazione di essere in prossimità di uno dei punti
focali del mondo: cielo e terra si incontrano in mezzo a un silenzio colossale. Meglio arrivarci, come faceva Mario, in una limpida giornata d’ottobre, quando dai pendii cominciano a scendere le folate fredde dei venti autunnali. È come se un brivido attraversasse i boschi e le radure o come se transitassero in aria dei carri immaginari colmi di voci e di memorie. Le cince, gli scriccioli ormai tacciono. Le lepri e i caprioli fanno le ultime corse prima che una burrasca improvvisa dia una bella spolverata di neve. Mario restava lì, in quella solitudine erbacea e ventosa, a pensare.

L’andare di Rigoni Stern era quello di un antico profeta che si lascia alle spalle le protezioni della conoscenza
intellettuale, per cercare nell’oscurità del bosco o nel chiarore delle radure una ragione meno astratta dell’essere
al mondo. Nel Bosco degli urogalli Mario sta leggendo un racconto di Tolstoj, quando sente un improvviso richiamo dalla strada. Apre la finestra e giù c’è Nino che è venuto a dirgli che quella è la sera buona. Mario posa a malincuore il libro, indossa la giacca a vento, i guanti, il paraorecchi di lana, piglia i vecchi sci di betulla ed esce nel gelo al seguito di Nino, il più bravo interprete di tracce e il più esperto cacciatore di volpi che lui abbia mai conosciuto. Per un attimo rimpiange il calore, la legna che arde nella stufa, il racconto di Tolstoi. Ma è solo un attimo. Dentro infatti è scattato una specie di ordine imperioso che proviene da zone remote. Non si può che obbedire: il richiamo non è partito da Nino, ma da una natura antichissima, non ancora addomesticata, che stabilisce condotte, sanzioni e ricompense. Seguire le corse taciturne delle volpi, leggerne le impronte sulla neve, vuol dire scoprire il misterioso codice grafico del bosco, tornare per una notte al sottofondo selvatico e buio della cultura.

A Mario Rigoni Stern calzava perfettamente quello che la domestica di Wordsworth disse a un visitatore occasionale che desiderava incontrare il grande poeta: «Questa è la biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta».

 

Paolo Lanaro

Il brano che riproponiamo per gentile concessione dell’autore, è tratto dalla raccolta di saggi La città delle parole – Scritture nel Novecento vicentino (Cierre edizioni).
Paolo Lanaro, nato a Schio nel 1948, vive a Vicenza. Ha insegnato filosofia nei licei e ha pubblicato sei raccolte di versi: L’anno del secco (Savelli, 1981); Il lavoro della malinconia (La Locusta, 1989); Luce del pomeriggio e altre poesie (Scheiwiller, 1997); Giorni abitati (Ripostes, 2002); Diario con la lampada accesa (Edizioni del Bradipo, 2005). La sua penultima raccolta, Poesie dalla scala C (L’Obliquo, Brescia, 2011) è stata finalista al Premio Viareggio 2011, al Premio Diego Valeri 2012 e ha vinto il premio Contini Bonacossi 2012.
E’ da poco stata pubblicata da Marcos y Marcos la sua ultima raccolta di liriche, Rubrica degli inverni (qui i particolari e alcune poesie).
Lanaro ha inoltre curato l’antologia Forme del mistico (1988) e nel 2007 ha dato alle stampe In tondo e in corsivo, un’antologia di saggi e interventi critici su scrittori veneti del ‘900.

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