“Mendicare”, romanzo di Max De Paz, è il monologo intenso, dolce quanto disperato, di un giovane emarginato che urla dal fondo della città (Parigi), dal luogo che per lui è solo sopravvivenza e nel quale cerca di ritrovare qualcosa di luminoso, la voglia di combattere per uscire fuori dall’inferno…
Nessun sentimentalismo, niente trucchi né orpelli. Mendicare di Max De Paz, tradotto in italiano da Annalisa Romani ed edito da nottetempo, racconta la storia di un barbone. Ed è lo stesso protagonista a voler usare questa parola che non mitiga la miseria, non nasconde la sofferenza e il dolore: “Preferisco dire le cose come stanno: siamo barboni ed è così, non c’è bisogno di nascondersi dietro parole più tenere tipo ‘senza domicilio stabile’ o ‘senza fissa dimora’”.
A parlare è un giovane di vent’anni, poco più che un ragazzo, scivolato in strada dopo un piccolo inferno personale che piano piano affiora in questo monologo intenso e serrato, diviso in piccoli capitoli brevi che compongono la polifonia senza sconti delle vite in strada, dell’emarginazione.
Mendicare non è un memoir, è fiction, e uno dei suoi pregi maggiori è tanto non cercare di premere sul pedale del sentimentalismo quanto non abbandonarsi al gusto del grottesco, di una rappresentazione gratuita dell’abbrutimento. Del resto, il primo bersaglio di questo giovane che ci parla è proprio lo sguardo dei borghesi del Quinto Arrondissement di Parigi: il quartiere dei resti romani, del Pantheon, della Sorbona, nel quale si aggirano gli esclusi che i bravi cittadini possono alternativamente ignorare o romanticizzare.
Sono belli ai loro occhi i barboni colti come Philippe: “Quanto si attizzano i ricchi davanti ai barboni che leggono, perché è poetico, capisci? Offre un’immagine bellissima della miseria e alcuni amici dicono che è perfetto per farsi tollerare dalla gente”. Moussa, il nero della rue l’Estrapade, invece, non ha altrettanto successo. La gente si sceglie i poveri, sceglie chi cercare di redimere con una moneta, decide a chi elargire il gesto eterno della carità per lavarsi la coscienza.
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I tragicomici anti-eroi di questo libro sono, forse, il memento mori di una società che diventa sempre più povera, sempre più incerta e sull’orlo del baratro.
Il protagonista stesso ha vissuto questa caduta: lo sfratto dalla casa popolare, il fratello maggiore distrutto dall’alcool prima e dalla droga poi, la sua famiglia sfasciata. E sono in molti, a Parigi, a morire di freddo sotto le case vuote.
Nel monologo di Mendicare si dispiegano tutte le stazioni della sopravvivenza esteriore e interiore: i condotti di areazione della metro che fanno da riscaldamento, il modo migliore di suscitare pietà o paura nei passeggeri della metropolitana, le guglie aguzze piazzate strategicamente in certi punti per impedire che possano diventare luoghi buoni per il riposo.
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Stratagemmi per il decoro che tutti gli abitanti delle metropoli europee sono sempre più abituati a considerare parte dell’arredo urbano: “Penso che non abbiate mai notato quegli spuntoni, ma perché sono fatti in modo tale da essere scambiati per decorazioni: sono marroni e hanno forme un po’ artistiche. Sono quasi belli, gli spuntoni assassini! A volte mi rendo conto che c’è gente pagata per elaborare strategie così accurate solo per impedirci di dormire tranquilli”.
Uno dei momenti più commoventi del libro è forse il racconto della scelta di Moussa, che con il rom Tamas è compagno di elemosina della voce narrante, di usare parte del ricavato della giornata di questua per comprare una gaufre al cioccolato. Non serve a scaldarsi, la gaufre, non sfama come un panino imbottito, non stordisce come una birra. È un piacere vero, necessario, umano, che scalda il cuore. Ma la materialità è diversa, perché se Moussa vuole scegliere il suo piacere come un ricco non lo consuma invece gustandolo, lo divora vorace.
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Sono tanti i passi di Mendicare che cercano di portare alla luce quei momenti di vita residua, forse di speranza, sottolineando al tempo stesso senza sconti l’inferno della povertà assoluta che inevitabilmente li deforma, li intacca, rendendoli sempre più fragili.
Ed è intorno alla speranza, all’orgoglio, a un’ipotesi di rivolta contro la propria condizione che ruota l’incontro che scuote il tempo congelato del protagonista: Élise, la ragazza dai capelli corti, “donna devastata, che dorme come una lepre”, costretta a travestirsi e a sembrare un uomo per salvarsi dai pericoli e dalle crudeltà della propria vita.
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È un incontro sentimentale, certo, ma ancora una volta senza i tratti di redenzione al miele. Anzi: proprio attraverso il rapporto con lei questo giovane scoprirà una rabbia sopita, persino una violenza, un desiderio forte di riaffermare sé stesso e la propria presenza in un mondo che costantemente la nega, lo costringe ad acquattarsi ai suoi bordi. “Lo so, io, che mendicare è un tunnel infinito, un ciclo infernale in cui il palmo aperto di oggi alimenta quello di domani. So che le monete ci comprano la calma, che non c’è ciotola più grande per un cane docile di un barattolo pieno di spiccioli. Ma si dà il caso che crepo di fame (…) Mendicare mi attacca a terra, m’inchioda e mi lega”.
Non c’è, alla fine di questo monologo dove si impastano la tenerezza ingenua di un ragazzo di vent’anni e la consapevolezza dura dell’emarginato, una salvezza facile, una via d’uscita comoda. Alla speranza di riscatto si può solo alludere inseguendo forse una certa rivolta, il gesto di chi ci vuole essere ancora, senza accettare passivamente la maledizione che schiaccia sul marciapiede: “Un corpo tormentato che se ne vola fino in cielo”.
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