La vita di Anne Boyer, scrittrice e poeta statunitense, cambia quando le viene diagnosticato il cancro al seno. “Non morire” è una testimonianza frammentaria e non lineare del suo percorso, che l’ha portata a raccontare anche le difficoltà e le ingiustizie che questa malattia si porta con sé, in un testo che cerca di aprire a una narrazione del tumore che si discosti dalla metafora della battaglia e che non attribuisca all’individuo le responsabilità della guarigione – L’approfondimento

Secondo la Breast Cancer Research Foundation, solo nel 2018 sono stati diagnosticati in tutto il mondo quasi 2 milioni di casi di cancro al seno, il tumore più diffuso nel genere femminile. È difficile pensare che il percorso di ognuna di queste donne possa rientrare nel tipico racconto di questa malattia, “quello di una persona che riceve una diagnosi, una terapia, e poi o vive o muore. Se vive sarà un’eroina. Se muore sarà uno snodo narrativo”: Anne Boyer per questo se ne allontana.

Non morire (La nave di Teseo, traduzione di Viola di Grado), libro vincitore del Premio Pulitzer 2020 nella categoria General nonfiction, è un resoconto frammentario e non lineare dell’esperienza dell’autrice, scrittrice e poeta, donna e madre single, a cui nel 2014 è stato diagnosticato un cancro al seno particolarmente aggressivo, e di come la sua vita si sia trasformata a partire da quel momento.

non morire anne boyer

Più che una storia, Non morire è un insieme di fatti, emozioni e riflessioni scaturite dalla sua esperienza e riportate con lo sguardo sfuocato e destabilizzante con cui Boyer ha filtrato gli eventi durante e dopo la chemioterapia. Non è semplice dare una forma alla malattia, neanche quando scrivere è il tuo lavoro, e così Boyer ne racconta di volta in volta diverse manifestazioni: dolore, sofferenza, solitudine ma anche conforto degli amici, cure costose e pericolose, e insofferenza delle strutture sociali che dovrebbero prendersi cura di te.

Nonostante il cancro per la scrittrice si presenti con numerosi volti, non diventa mai l’oggetto da combattere (e che farebbe di lei una guerriera), perché la metafora della battaglia non prende in considerazione tutti coloro che dal cancro non escono vincitori: “Morire di cancro al seno non è una prova della debolezza o del fallimento morale dei morti. Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti”.

Addossare la responsabilità della guarigione solo sul malato significa infatti allontanare lo sguardo della collettività dalle colpe sociali e ambientali. È infatti raro che elementi come “l’eziologia industriale del cancro al seno, la storia e la pratica misogina e razzista della medicina, l’incredibile macchina del profitto del capitalismo, la distribuzione iniqua di sofferenza e morte secondo classi sociali” rientrino in questo arco narrativo costruito sulla rinascita, e in cui può sembrare che a decretare il risultato di questa malattia sia solo l’atteggiamento e la forza di volontà di chi ne soffre. In realtà, come scrive Boyer dopo essersi documentata a lungo, “chi muore e chi no del complesso di patologie chiamato ‘cancro al seno’ lo determina lo stipendio, l’istruzione, il sesso, lo stato familiare, l’accesso alle cure, la razza, l’età.”

Uscire dalla logica del combattere non significa per Boyer smettere di incoraggiare le donne che soffrono di cancro al seno, o portare via le loro speranze di guarigione, quanto piuttosto offrire loro la libertà di affrontare il cancro senza ottimismi forzati e sensi di colpa, e aprirsi con sincerità a chi sta per intraprendere il percorso di cura. Boyer sceglie di farlo tramite un racconto a tratti dissacrante, e a tratti ricercato, in alcuni punti poetico, in altri filosofico, e in altri ancora materiale e carnale dell’esperienza totalizzante della malattia, in cui i momenti di disperazione e dolore non vengono mai nascosti dietro un velo di retorica.

Il 2020 è stato, tra le molte cose, anche un anno in cui alcuni ambiti della cultura hanno provato con fatica a fare i conti con gli archetipi narrativi che hanno segnato a lungo le riflessioni su alcuni aspetti della vita e della storia (come per esempio le migrazioni, il colonialismo, la professione femminile, la disabilità). Con il pamphlet Il pericolo di un’unica storia, Chimamanda Ngozi Adichie si pone come apripista nell’apertura di questo dialogo; allo stesso modo Boyer, senza velleità predicatorie, in Non morire richiama l’attenzione sugli stereotipi del racconto collettivo della malattia, e nello specifico del percorso di tutti coloro che soffrono di cancro al seno, oltre che sulle storture del sistema che dovrebbe curarla.

Nel libro non manca comunque l’apprezzamento verso la letteratura sul cancro dalla quale la scrittrice si è sentita accolta, come per esempio quella dei libri di Audre Lorde, Susan Sontag e Kathy Acker. Ma non è necessario essere d’accordo con il punto di vista di Boyer su come il cancro vada narrato, quali aspetti vadano enfatizzati o a quale mito sia meglio rapportarlo, perché proprio per il suo essere un tema così universale e al contempo così personale il cancro al seno non può essere associato a un’unica narrazione.

Rimane, infine, per Boyer, un’ultima libertà da rivendicare: così come è legittimo che i modelli narrativi possano moltiplicarsi, andando a costituire un’unità disomogenea e frammentaria, è altrettanto legittimo liberarsi dall’obbligo morale di narrare e di narrarsi, che sembra imporsi dall’esterno su tutti coloro che hanno la fortuna di guarire.

Non facciamo una colpa alle scrittrici che hanno deciso di escludere dal proprio corpo letterario il cancro, e non imponiamo a tutte coloro che desiderano voltare pagina il farsi paladine di una malattia che le ha copite, ma che non le definisce.

Fotografia header: Cassandra Gillig

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