Paola Cereda torna in libreria con il romanzo “La figlia del ferro”, che ci porta all’Elba, durante l’occupazione tedesca del 1943. Su ilLibraio.it la riflessione dell’autrice, che parla di parole e guerra, di ieri e di oggi

Il giorno in cui La figlia del ferro arrivava in libreria, la radio raccontava la storia di una donna ucraina che, messa davanti all’orrore della violenza che la guerra porta con sé, decideva di compiere un gesto simile a quello della protagonista del romanzo: scegliere di salvare altre giovani con un atto di estremo coraggio.

Sono passati quasi ottant’anni dai fatti raccontati nel romanzo, eppure il tema del corpo, in particolare femminile, nelle guerre resta attualissimo. Il corpo è minacciato, messo a rischio, “fatto a pezzi” da atti violenti che umiliano e distruggono la persona in quanto insieme. Vedere il pezzo serve all’offensore per andare oltre la compassione e la colpa, per non sentire dolore nell’infliggere dolore. A chi subisce, il compito lento e durissimo di ricostruire l’intero, di rimettere insieme i pezzi per tornare a far dialogare mente, corpo e sentimenti.

Per raccontare storie di ieri (e di oggi) che avessero il corpo come denominatore comune, ho ragionato sul vocabolario della guerra partendo, in realtà, dal mondo naturale dove lo scontro e la competizione sono elementi quotidiani e comuni. In natura una pianta compete con un’altra per la luce e per l’acqua e ogni specie lo fa a modo proprio, muovendosi a favore del sole o allungando le radici per raggiungere una falda sotterranea. Due animali si fronteggiano per la femmina prescelta, la sanguisuga usa i suoi recettori per individuare il possibile ospite, prima dell’attacco decisivo e della conseguente occupazione. Come ogni altro essere vivente, anche l’uomo combatte le sue battaglie ma è il solo a essersi inventato un vocabolario per raccontare la guerra.

Guerra: questione aperta che non ammette più punti di vista, che genera discordia e si trasforma in mischia, in un caos che ha bisogno del paradosso della forma. Per questo ci si arruola, si cerca cioè il proprio ruolo in un esercito che è un esercizio efficace solo se è costante e disciplinato da gerarchie e da regole.

La prima missione di un soldato è quella di staccarsi dal significato originale della parola che lo definisce. Soldato: non più assoldato a pagamento per il mestiere delle armi e, quindi, mercenario, ma pienamente identificato con l’Arma e con il Corpo. L’arma è il fucile, l’Arma è la struttura che differenzia il fante dall’artigliere. Il corpo è la carne che il soldato mette davanti alle intenzioni, il Corpo è il contenitore che organizza il combattimento.

Nel mestiere della guerra, il piccolo, il concreto e il personale esistono soprattutto nella dimensione collettiva sintetizzata dall’uso della Maiuscola. Lo Stato Maggiore è composto da ufficiali che stanno al vertice eppure, in ogni guerra, sono i racconti minori a diventare memoria insieme ai fatti che, sommati, sono la Storia le cui date segnano un prima e un dopo. Alla Storia dedichiamo ricorrenze e monumenti, segni tangibili di vite piccole e straordinarie che diventano vittime, carnefici, eroi, vincitori, vinti. Esistenze sulla via di un ritorno temporaneo – reduci – oppure eterno: lapidi.

La narrazione della guerra giustifica le perdite, consola gli orfani e aggiorna i confini e le mappe. Ma una narrazione è di per sé una storia parziale che dimentica o trascura alcuni dettagli, condannandoli a scomparire insieme alle esistenze.

Pace: parola di quattro lettere che fissa dei legami in un patto momentaneo, in un accordo che ha un prezzo da pagare per arrivare alla quiete momentanea tra termini ancora da inventare.

A differenza del vocabolario della guerra, quello dell’umano è la rivincita delle lettere minuscole, ed è lì che torniamo per sprofondare negli odori, nei sentimenti, nelle scelte di Iole. Dentro di noi, nelle vite reali.

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L’AUTRICE – Paola Cereda, psicologa, è nata in Brianza. Oggi vive a Torino e si occupa di progetti artistici e culturali nel sociale. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, Della vita di Alfredo. Ha pubblicato Se chiedi al vento di restare (Piemme 2014, finalista al Premio Rieti) e Confessioni audaci di un ballerino di liscio (Baldini & Castoldi, 2017, finalista al Premio Rapallo Carige e al Premio Asti d’Appello). Nel 2019 è arrivata sesta al Premio Strega con Quella metà di noi (Perrone).

Il suo nuovo romanzo, La figlia del ferro, sempre editore da Perrone, ci porta all’Elba, isola di miniere e di ferro, dove vive Iole, la protagonista. Il bombardamento del 1943 la costringe ad affrontare da sola l’occupazione tedesca e i lunghi mesi che precedono lo sbarco alleato. Figlia di un anarchico, abita a Portoferraio e si mantiene come lavandaia. Mario, un giovane vicino di casa, si accorge di lei, dell’ostinazione del suo sorriso e della determinazione nelle scelte di ogni giorno.

Il 1944 è l’anno dello sbarco delle truppe alleate. Tra i soldati in arrivo all’Elba c’è anche Ibrah, un fuciliere senegalese dell’esercito coloniale francese. Ci sono corpi, nel romanzo: il corpo di Iole e quello di Ibrah, i corpi delle donne e quelli dei soldati. Ci sono parole rubate, impossibili da pronunciare perché portano con loro lo smarrimento davanti alle ingiustizie. Se le storie non raccontate non esistono anche quando sono vere, le parole ritrovate portano alla luce una vicenda realmente accaduta e scavano nella domanda: chi è l’altro? Da lì ripartono per raccontare Ibrah e i suoi fantasmi, Iole e il suo coraggio.

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