L’intervento dell’autore de “La vita in tempo di pace”: “La rete sta lentamente distruggendo il mestiere di produrre oggetti mentali chiusi e finiti, cioè i libri”

Nella disciplina cui precedentemente mi dedicavo anima e corpo ero in tutto e per tutto un uomo del Novecento: carta e matita, carta e penna, carta e china, carta stampata, carta da riempire lentamente di linee e simboli, colori, tratteggi, cifre parole indicazioni. Carta su cui rappresentare ciò che si voleva, si sperava, sarebbe un giorno esistito in forma di materia abitabile, conformata e tridimensionale: in pratica edifici.

In quanto scrittore sono invece un prodotto (e una vittima) del ventunesimo secolo. In altre parole del computer. Per essere più preciso, della rete. È stato in rete che per la prima volta nella mia vita mi sono messo in relazione incorporea con altri esseri viventi, rovesciando la procedura seguita fino a quel momento che in genere prevedeva prima un contatto visivo e poi un contatto verbale. Ed è stato in rete che per la prima volta – e poi molto a lungo – mi sono esercitato nell’uso della parola scritta, non solo come mezzo, ma anche come fine. E ancora, è stata la rete che mi ha messo in relazione con l’intelligenza fresca e fulminea di utenti molto diversi da me, come età e formazione, ma come me interessati alla scrittura, magari sino ad allora soltanto come lettori.

Potrei andare a avanti a lungo nella ricostruzione di ciò che è stato per me il web, ma aggiungo solo che è qui che per la prima volta mi sono ritrovato in comunità sociali di scriventi e lettori, ed è qui che, nel rapporto immediato tra la produzione di scrittura e il suo consumo, ho trovato i miei primi indispensabili riscontri come produttore di parole. Quindi sì, la rete mi ha trascinato con sé, insegnandomi a coltivare una disciplina diversa da quella che per almeno 35 aveva occupato un posto centrale nella mia vita. E tuttavia è proprio dalla rete che oggi mi ritrovo a dovermi difendere, e non sono il solo.

La rete cerca di prendersi ormai tutta la mia attenzione, tende a occupare tutto il mio spazio mentale nel gioco (ma forse non è tale) veloce della produzione di lotti più o meno strutturati di parole/immagini e del loro riscontro immediato. Con la rete, ogni volta che accendo un computer – come tutti ne ho sempre uno addosso o nello zaino: uno smartphone, un tablet o un portatile – so che mi basta un clic su un programma diverso da quello di scrittura, per essere trascinato via dalla corrente, a volte brutale, del contatto, dell’informazione, dell’immediato, dell’attuale. E so che la rete, assieme alla mia concentrazione, sta lentamente distruggendo non solo il mondo come lo conoscevo e i suoi molti mestieri, ma lo stesso mestiere di produrre oggetti mentali chiusi e finiti, cioè le opere, i libri. E so anche che la rete sta modificando la mia capacità e il mio tempo di attenzione, i miei gusti, l’attitudine all’approfondimento, che diminuisce sempre di più. È un discorso lungo e piuttosto complicato, ma non c’è dubbio che il gioco stia cercando di modificare a sua immagine i giocatori. E c’è caso che ci riesca, prima che ci stanchiamo.

*L’autore ha pubblicato con Ponte alle Grazie il romanzo “La vita in tempo di pace”, finalista al premio Strega 2014 e vincitore della sezione narrativa dell’85esima edizione del premio letterario Viareggio Rèpaci

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