I tempi dei “Figli della mezzanotte” e dei “Versi satanici” ormai sono lontani (come lo è la “fatwa”, che bisognerebbe aver cura di non dimenticare), ma un nuovo libro di Salman Rushdie è sempre un evento. Mario Baudino ha letto per ilLibraio.it “Quichotte”, prova quasi muscolare di virtuosismo fantastico dello scrittore anglo-indiano, che parte alla nascita del romanzo moderno, ovvero da Cervantes. Il risultato è un’opera, composta da un fascio di storie e da incursioni dell’autore, tendenzialmente sconfinata

I tempi dei Figli della mezzanotte e dei Versi satanici ormai sono lontani (come lo è la “fatwa” dell’Ayatollah Khomeini, che bisognerebbe aver cura di non dimenticare), ma un nuovo libro di Salman Rushdie è sempre un evento, almeno per quanti ritengono lo scrittore anglo-indiano l’interprete più interessante e per così dire ispirato di ciò che rimane della nostra modernità: piedi piantati nel Novecento, sguardo lungo che gli ha consentito di lasciarselo alle spalle attraverso una scrittura polifonica e inafferrabile, dove dominano in un balletto persino grottesco tragedia e buffonerie, dove la narrazione pare a volte anarchica e labirintica ma sempre nasconde una sua segreta coerenza, anche nelle incontinenze d’autore che gli sono state spesso rimproverate.

Ora, a due anni abbondanti da La caduta dei Golden (le Mille e una Notte rivissute a New York: che ebbe accoglienze tiepide), Rushdie convoca una folla di classici della letteratura non solo occidentale per un grande banchetto con Quichotte (Mondadori, traduzione di Gianni Pannofino), prova quasi muscolare di virtuosismo fantastico che parte, come dice il titolo, dalla nascita del romanzo moderno, ovvero da Cervantes. Ma, avverte l’autore, lo fa un po’ alla lontana, posto che il “Quichotte” cui pensa (aderendo in questo alla trascrizione francese del nome) è quello di Massenet. E tuttavia gli elementi essenziali ci sono tutti, a partire dai protagonisti: il Cavaliere dalla triste figura e Sancho (la traduzione italiana adotta questa grafia, non del tutto usuale). L’uno è innamorato dì una Dulcinea-star televisiva (che si chiama Salma, pare una firma dell’autore stesso) e decisamente avviato su mistici cammini; l’altro, figlio da lui concepito senza donna ma forse non senza peccato, “con la sola forza del suo desiderio e grazie al favore delle stelle”, ha “una natura incline al sarcasmo”; e per giunta deve ancora divenire del tutto umano. Da Cervantes passiamo così a Pinocchio, con tanto di grillo parlante e fata turchina (bionda, obesa, americana) ma anche a un poema persiano – dodicesimo secolo -, Il Verbo degli Uccelli, del sufi  Farīd ad-dīn ʻAṭṭār.

L’orchestrazione è ampia, a volte fragorosa, tragica ed esilarane; vale del resto il riferimento a Massenet. E ha un tema centrale, iterato modulato in un crescendo di variazioni, nel rapporto di abbandono e riconciliazione, fuga e ricerca, fra due persone, siano esse padre e figlio o fratello e sorella, o, naturalmente, autore e personaggio: tutti, salvo i caratteri secondari, di origine indiana, tutti con un passato in India, nella Mumbai dell’autore quando ancora si chiamava Bombay. Le avventure in un’America violenta, brutta e spaventevole di Quichotte, commesso viaggiatore ex giornalista giramondo, ridotto da un trauma a estatico consumatore di tv spazzatura, (ma che vende riservatamente anche potenti oppiacei), si sdoppiano in quella di un autore di mediocre fortuna che le sta appunto scrivendo – in un mondo peraltro molto migliore, anche se fortemente minacciato da populismi e sovranismi -, e trasferisce nel romanzo la sua, di vita: ma scopre scrivendo come il libro stesso e i suoi personaggi gli rivelino di volta in volta eventi fino ad allora ignoti che gli appartengono nel profondo, o ne anticipino alcuni di non secondaria importanza.

Salman Rushdie Quichotte

Raccontare la trama (non è così caotica come sembrerebbe a prima vista, anzi al contrario ha una sua ferrea logica basata su un sistema di analogie) farebbe torto al lettore, che in questo romanzo, come in genere nelle opere di Rushdie, deve potersi immergere e abbandonare senza troppi punti fermi. Anche perché, come sempre, lo scrittore gioca con noi alzando per così dire di pagina in pagina l’asticella di quel patto implicito che chiede la sospensione dell’incredulità. E tuttavia prende ogni tanto la parola in proprio (dunque, a un terzo livello, come “creatore” del “creatore” di Quichotte) per ricordarci che cosa voglia essere questo suo libro tendenzialmente sconfinato: “molte delle storie odierne”, scrive indirizzandosi al “gentile lettore” (Cervantes usava invece l’aggettivo desocupado, ovvero libero da impegni, persino ozioso), “sono e devono essere così, plurali e debordanti, perché si è verificata una specie di fissione nucleare nelle vite e nelle relazioni umane, le famiglie si sono divise, milioni e milioni di noi si sono spostati ai quattro angoli del globo (notoriamente sferico e, perciò, privo di angoli), per necessità o per scelta”.

Non è una storia, dunque, quella che ci viene narrata, ma un fascio di storie nella tradizione che Rushdie – in un’altra delle sue incursione nel romanzo – definisce “picaresca”; che adotta cioè “molti registri diversi, alto e basso, favolistico e quotidiano” in modo da risultare “al contempo parodistica e originale, presentando e racchiudendo, nella sua irregolarità metamorfica, la molteplicità della vita umana”. Bisogna riconoscergli che rispetta pienamente questo programma, e realizza in modo magistrale il progetto letterario enunciato; la sua energia dal punto di vista inventivo e linguistico rimane sorprendente, i calembour sono folgoranti e mai gratuiti (uno per tutti il gioco di assonanze tra Quichotte e Key shot, modalità particolare di annusare cocaina su una chiave), gli imprestiti letterari vertiginosi (tanto da mettere a dura prova il traduttore: superata mirabilmente, salvo un Castello – o torre secondo le versioni – della Gioiosa Guardia, che fa parte del mito di Artù ma rimane distrattamente, in inglese, il “maniero di Joyous Gard”, come fosse un toponimo).

“C’è dentro un bel po’ di Joyce”, aveva detto lo scrittore quando a Londra presentò il nuovo libro alla stampa.  E sì, c’è, anche se le parole dell’autore fanno pensare più a una falsa pista maliziosamente indicata in un dedalo di allusioni ora apertissime e dichiarate – anche nei ringraziamenti finali -, ora assai criptiche e deliziose – come quella a E. M. Forster e al suo Passaggio in India, nascosta in una battuta per la gioia del lettore di buon orecchio. Diciamo però che c’è molto Cervantes, più di quanto l’autore abbia valuto far capire, proprio nel gioco di accumulo, e nella bulimia letteraria: che è una delle chiavi del suo lavoro e tuttavia rischia, soprattutto in Quichotte, di suonare in qualche modo fine a se stessa; di affrontare sì, ma forse persino con troppa baldanza, il demone della ripetizione.

Sempre in quella conferenza stampa londinese, Salman Rushdie aveva anche sottolineato come le “due linee narrative, che si riecheggiano e rispecchiano l’una nell’altra, e dialogano tra loro, avrebbero funzionato, lo sapevo fin dall’inizio, solo se alla fine fossero riuscite a incontrarsi e fondersi reciprocamente. Non ne sono stato sicuro per un sacco di tempo”. Non saremo noi a sciogliere l’interrogativo, né a rivelare come alla fine si fondano davvero, anche se forse in maniera non del tutto imprevedibile. Tocca al lettore. Ma detto questo, come scriveva Gianfranco Contini presentando il Gadda della Condizione del dolore, molti anni fa, “non giova insistere nella specificazione”; perché una volta “tracciate le cornici generali, se a ogni costo si vuol ragionare il proprio godimento, le analisi singole possono facilmente trovare il loro luogo”.

 

 

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