In anteprima su ilLibraio.it il racconto di Laura Pariani tratto da “Sacred / Sacro”, terzo numero della rivista letteraria italiana bilingue “The FLR – The Florentine Literary Review”

Questa racconto di Laura Pariani (da poco tornata in libreria per NN con Di ferro e d’acciaio) è un’anteprima di “Sacred / Sacro”, il numero 3 della rivista letteraria italiana bilingue The FLR – The Florentine Literary Review, curata da Alessandro Raveggi. Il nuovo numero si presenterà a Book Pride il prossimo 25 marzo alle 11, e contiene racconti e testi poetici inediti di: Giordano Meacci, Laura Pariani, Paolo Zardi, Licia Giaquinto, Omar di Monopoli, Francesco D’Isa, Vivian Lamarque, Andrea Ponso. Le traduzioni sono a cura di Johanna Bishop e le illustrazioni di Giada Fuccelli. Maggiori informazioni sulla rivista sul sito.

laura pariani

LAURA PARIANI

LA SERA DEI GRANDI ANTICHI

Bòn, l’era finìda. Per tutto il pomeriggio avevo scorazzato quella sciùra milanese innnànz-indree lungo i vari itinerari di Orta. Tour classico: l’ambone nero all’isola di San Giulio, il Palazzotto della Comunità, l’antico albergo dove soggiornarono Nietzsche e Lou Salomé, le case nobiliari della Motta, il cimiterino di San Quirico e, dulcis in fundo, il Sacro Monte.

«E adesso che abbiamo nutrito l’anima, andiamo a rifocillare il corpo» dissi stirando la schiena.

La mia cliente rise. Peccato che l’osteria del Sacro Monte fosse chiusa da tempo, sarebbe stato bello prendere un aperitivo sotto il bersò guardando il lago intenerirsi di quel rosa perlaceo che strappava alla Duse il gridolino: «Voglio una vestaglia color tramonto sul lago d’Orta!».

Ci toccava tornare in paese. Prendemmo lo stradello tortuoso in discesa. Il cane della sciùra, un bassotto paziente e socievole, abbaiò visibilmente stanco di trottare.

Cielo sereno. Eppure c’era qualcosa nell’aria. Una sensazione diversa dal solito. È come se la sera stesse per gridare, pensai.

Dalle varie balconate panoramiche che intervallavano la discesa, il promontorio – coi tetti d’ardesia brillanti nell’umido della sera d’ottobre e le finestre che si accendevano di lucine – pareva una barca pronta a prendere il largo.

Di nuovo mi colse all’imprevista l’impressione di una belva acquattata, rannicchiata nell’ombra, in attesa di prede.

Mentre scendevamo i gradini di pietra della scala che portava alla grande terrazza con vista lago, il campanile sull’isola suonò la preghiera della sera.

«Comincia la notte, le suore vanno a dormire: da questo momento fino a domattina il lago appartiene ai draghi e al diavolo» dissi cercando di scacciare l’inquietudine che cominciava a attanagliarmi. Niente di preciso. Forse era la nebbia a darmi quella sensazione: fitta, azzurrastra, insolita dopo la bella giornata di sole.

Parola va e parola viene, con certi turisti una guida finisce sempre per tirar fuori le leggende dei tempòribus. E questa sciùra milanese ci andava in fregola: era la terza volta che si faceva contare la storia dei draghi che San Giulio aveva sconfitto eppoi incatenato nei sotterranei dell’isola.

A metà racconto mi bloccai sentendo il cane uggiolare eppoi ritrarsi fino a irrigidirsi contro la mia gamba, quasi cercando la mia protezione. Alzai gli occhi: il lago pareva scomparso, sepolto sotto uno strato di foschia densa, come se una nuvola si fosse abbassata e adesso si mangiasse il prato, metro dopo metro, avvicinandosi ai nostri tavolini. C’era qualcosa che non quadrava: il vento soffiava verso ovest e la nebbia si muoveva in direzione contraria. La mia sensazione di disagio aumentò.

«Ellamiseria!» gridò la sciùra alzando il braccio. «Cos’è quella roba?»

Levai gli occhi nella stessa direzione. Un’ombra traversò la nebbia. Somigliava a un uccello ma era così inquietante nella sua grandezza mostruosa. Un grande aquilone a forma di… pterodattilo?

Il cane abbaiò, poi si ritirò impaurito sotto il tavolo.

«Che scherzi fa la nebbia» commentò a voce bassa la sua padrona, ingollando un sorso abbondante di gin tonic.

Signùr! È di nuovo la sera dei Grandi Antichi, pensai.

A chi non è di queste parti e non respira abitualmente aria di lago, non mi riesce mai di parlare dei segreti di questa valle. Dovrei partire da lontano, che ne so, magari dall’altare di Delfi sotto cui erano rifluite le acque buie del diluvio; oppure dal tempio di Gerusalemme che copriva il baratro del tehom, l’oceano delle origini su cui tuonò la Parola; dall’apsù tenebroso che sotto Babilonia portava nel caos, o dall’antro oscuro dei Mani che si spalancava sotto Roma, quando si scoperchiava una pietra fatale. È una verità che percorre tutte le culture, l’ho ritrovata perfino dall’altra parte del mondo, nelle pacarinas andine dove acqua e pietra, unendosi, danno accesso agli Dèi. E qui, in questa piccola valle alpina, arrivano gli echi del ribollente hvergelmir, la caldaia tonante che si estende sotto i monti come un mare oscuro di nebbia abitato dai Grandi Antichi. Sono le grotte e l’acqua il collegamento tra Loro e noi. È qui che Loro possono affacciarsi quando le campane tacciono per la notte, finché all’alba si ritirano al rintocco della preghiera del mattino.

Nei seculòrum gli uomini avevano cura dei Grandi Antichi, li nutrivano; e Loro, saziati, proteggevano la valle e tenevano lontani i mali. Per questo la grotta dell’Orchéra nel passato ha sempre ricevuto un culto ininterrotto di sacrifici. Ché, se i Grandi Antichi non vengono nutriti ritualmente, divorano l’anima e l’ombra della prima persona in cui si imbattono. E siccome la preghiera e il rito vanno scomparendo, Loro salgono fino a noi sempre più raramente.

Ma perché proprio quella sera?

Sentii la voce dell’Orchéra chiamare dal lago. Come in un sogno. Come in un delirio.

La sciùra non se ne rese conto, continuava a ingozzarsi di salatini. Forse meglio così: che poteva capire una come lei?

Sentii che magnificava l’aperitivo: «Questo lonzino è una delizia. Tutto quel che abbiamo visto oggi, è stato delizioso!»

Sussultai: la parola “delizia” solo Hieronymus Bosch è stato capace di usarla appropriatamente… «Ma non ha visto il meglio» dissi. Essì, non seppi trattenermi.

«Cioè?»

«La grotta magica, situata nell’insenatura a nord di questo promontorio. Nel nostro dialetto si chiama Büs dl’Orchéra, che in italiano suona buco dell’Orca, grotta dell’Orca. Per la fantasia popolare si tratta di un’orchessa, un essere mostruoso che fa la guardia alla porta dell’inferno».

Aveva smesso di mangiare e mi guardava con aria perplessa.

Continuai: «Nella grotta esiste un “pozzo dei desideri”: si tratta di una credenza comune a tutta l’Europa dell’antichità. Lì un tempo andavano le donne gravide a pregare per un parto che avesse buon esito; venivano le spose che avevano un uomo lontano: buttavano un’offerta nell’acqua del fondo e chiedevano che l’amato tornasse sano e salvo. Oppure venivano a chiedere che un buon affare andasse in porto».

«Che interessante… Ma alla fine quelle richieste venivano esaudite?» chiese la sciùra accendendosi una sigaretta.

«Così si tramanda: che l’Orchéra è una vera potenza. Ma c’è dell’altro» aggiunsi. «Da sempre questo luogo è connesso a incantesimi malefici: basta scrivere su un brandello di carta o di stoffa il nome di una persona odiata e depositarlo in una delle nicchie che si aprono nelle pareti del pozzo. E allora, sicuro come la sera e il mattino, il tuo nemico verrà bersagliato dalla cattiva sorte: chiuderà bottega, i figli si ammaleranno, sua moglie lo lascerà, lui stesso soffrirà le pene dell’inferno fino a morire… Naturalmente per fare tali richieste, bisogna offrire qualcosa in cambio. Ma se l’Orchéra sarà soddisfatta, il desiderio verrà esaudito».

«Molto comodo, quando si hanno dei nemici…» commentò la sciura ridacchiando.

Mi inalberai: «Non c’è niente da ridere».

«Mi scusi, mica volevo offenderla, ma mi impressiona la serietà con cui lei ne parla: come se avesse vissuto ai tempi in cui prosperava questa… credenza, e conoscesse i fatti per esperienza diretta» disse la sciùra e rise di nuovo.

Scrollai le spalle: inutile stare a spiegare i misteri di lago a gente di città che viene a Orta solo per mangiare lonzini “deliziosi” e scattare foto “deliziose”… Frenai la voglia di dirle: «Stupida, prova un po’ a rimanere qui una sola notte e vedrai se questo è un posto “delizioso”. Li sentirai i Grandi Antichi che ti circondano, che ti chiamano, che ti raccontano com’era un tempo il mondo. Una voce che atterrisce. Lo senti questo suono? No, non è l’acqua. Non è il risuonare delle onde sulla riva, non è il soffio del vento tra i rami. È la loro voce. Sono come parole che non si possono pronunciare con le labbra. Come una musica che all’alba svanisce e si dimentica…»

La sciùra scosse ancora la testa con disapprovazione: «Mi sembra incredibile. Mi ero fatto l’idea che Orta, col convento delle benedettine sull’isola e col Sacro Monte alle sue spalle, fosse un luogo in cui si respirasse il sacro!»

«Lo è» risposi seccamente.

«Ma il pozzo di cui mi ha appena raccontato trasuda paganesimo!».

«Forse perché allude alla potenza di Dèi e non del Dio cristiano?».

«Più o meno».

«La gente di Orta non ha mai sottilizzato tanto» sorrisi. «Neanch’io del resto» aggiunsi scostando una ciocca di capelli che mi era ricaduta sulla fronte. «D’altra parte gli Dèi antichi, proprio in quanto potenze ultraterrene, non possono morire…»

«Se non vedo sta Orchéra non ci credo.»

La nebbia si era fatta più densa mentre imboccavamo un sentiero di rovi e robinie. Accesi una torcia per fare luce. In una decina di minuti raggiungemmo l’alta riva settentrionale del promontorio. Poi giù per la china ripida, piegando a sinistra fino all’imboccatura del Büs. Passato l’arco di entrata ci trovammo in una grotta dal soffitto molto alto, di roccia nera venata di un giallo ferruginoso. Dalle pareti si sentiva sgocciolare acqua. Sotto le volte echeggiava un gemito lugubre che impressionò la sciùra.

«Niente paura: è soltanto l’eco delle onde. Al pozzo che sta in fondo alla grotta, attraverso non so quale canale naturale, arriva l’acqua del lago» spiegai.

Nel silenzio si sentì, come se fosse un ricordo e non un suono, l’eco cupa dell’acqua nera invisibile.

La torcia illuminò la rozza imboccatura del pozzo di cui le avevo parlato, circondata da un cerchio di pietre nere incastrate l’una nell’altra a formare un basso muretto.

«Tutto qui?» borbottò la sciùra guardandosi intorno.

Subito dopo si udì un sibilo e dal buco cominciò a uscire un’ombra: la figura silenziosa si addensò, come aggrappandosi al cerchio di pietre, spingendo, forzandolo perché si allargasse. Un artiglio nero, umido e scolpito, lacerò l’aria. Un caos di sensi del tutto alieni si rovesciò come viscere invisibili fuori dal cerchio di pietre. Refoli disorientati di sensazioni si srotolarono nella grotta per qualche attimo facendo ringhiare il cane. L’Orchéra – qualcosa di bagnato e viscido – scivolò fuori dal pozzo. Lentamente si spinse verso l’alto, crogiolandosi nell’improvvisa spaziosità della grotta.

Un’enormità scura, la cui bocca zannuta si apriva, la lingua protesa. Per me non era la prima volta che vedevo uno dei Grandi Antichi, ma il cuore mi balzò in gola lo stesso. Piombai in ginocchio, adorando.

La sciùra cercò di parlare, emise qualche tremulo suono di incredulità, di confusione, di paura. Stava immobile, paralizzata. Il cane venne a accovacciarsi vicino a me, stravolto dal terrore.

L’Orchéra si stirò. Occhi che non erano occhi. Colori notturni, sepolcrali, neroblu, neromarrone, neroverde. Poi si protese verso la sciùra per stringerla in un abbraccio famelico.

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