“Il mio lavoro faticoso attorno a una storia parte quasi sempre da un luogo che poi, se ho fortuna, comincia ad animarsi di gente, contrapposta o conforme al suo spirito”. In occasione della pubblicazione de “Il giro del miele”, su ilLibraio.it lo scrittore emiliano Sandro Campani racconta la sua idea di letteratura e parla dei suoi autori di riferimento

Questa mattina ero in giro col cane, vicino a casa, in un posto che ho scoperto la settimana scorsa. C’è una stradina ripida che porta in fondo al fosso. In un inverno secco come questo si fa tranquillamente in macchina. Abito in questa zona del reggiano da due anni, non so ancora come si chiami quel fosso, che oggi era gelato. Io e il cane ci abbiamo camminato sopra. Il fosso fa qualche ansa, sul lato sud è chiuso da una rupe d’arenaria. Sul lato nord, invece, c’è una casa disabitata, sopra una piantata di aceri campestri invecchiati ordinatamente, quella che è stata una vigna di cui oggi non ci sono più i filari.

La casa è in buone condizioni; ci arrivano la luce e l’acqua. Ha una terrazza aggiunta una trentina d’anni fa, a occhio e croce, e gli scuri sono ridipinti di verde – sembra da poco. Appeso a ogni infisso c’è uno straccio che, mi ha spiegato mio fratello, serve a tener lontani i picchi. L’unico ambiente aperto, e rovinato, in cui si può buttare l’occhio, ha un tramezzo di legno che è crollato. Ci sarà stato il fienile di sopra, legnaia e cantina di sotto; una parete è scavata nella roccia. Il cane voleva saltarci dentro. Era spaventato dalla sparatoria che i cacciatori avevano avviato più indietro, gli echi rimbombavano per tutto il canalone. Un tempo i cacciatori vestivano in mimetica; adesso, per le normative sulla sicurezza, vanno in giro con dei giubbetti arancioni, sembrava che sparsi nei campi franosi ci fossero dei cantonieri dell’ANAS.

Dalla casa parte un sentiero che in poche decine di metri arriva a una fila di faggi belli grossi. È una buca stretta che guarda a nord e dal fosso viene su aria gelida, è vero, ma saranno trecento metri d’altitudine, a stare abbondanti. Normalmente i faggi, in appennino, cominciano a novecento. Nella collina reggiana però ci sono posti dove trovi i faggi così in basso. Ho poi scoperto che si dicono faggete eterotopiche, e che anche in Toscana se ne trovano (oltre ovviamente alla Foresta Umbra). Questo mi fa sentire a casa. I faggi appartengono a mio padre, per tutti i giorni che ho passato con lui sul crinale; la luce che passa sotto i faggi non è paragonabile a quella di nessun altro albero. È come sentire gli spiriti.

Su questo sentiero e questa casa so già che dovrò lavorare. È un lavoro molto simile a quello che ho già affrontato altre volte, ma non ci si può fare niente: ognuno ha due o tre immaginazioni che lo tormentano ed è giusto che continui a scriverne finché non ne esaurisce le sfaccettature.

Chi ci abitava, in questa casa? In quanti erano? Perché se ne sono andati? Oppure, perché sono morti? Perché hanno venduto? C’è qualcuno che torna d’estate?

Il mio lavoro faticoso attorno a una storia parte quasi sempre da un luogo che poi, se ho fortuna, comincia ad animarsi di gente, contrapposta o conforme al suo spirito. I luoghi hanno il loro spirito, indipendentemente dalle persone: quando capita di scriverne, perciò, non si tratta di dare al luogo una vernice emotiva attraverso i sentimenti dei personaggi; si tratta, al contrario, di osservare come il luogo agisce sui personaggi, mano a mano che la loro vita prende forma (se l’immaginazione ha attecchito, e la storia si va raggrumando). Non caricare di intenti sentimentali la descrizione di un paesaggio è per me importante quanto non caricare di intenti sociologici la descrizione di un personaggio. Se mi concedessi di fare una cosa del genere, il rispetto per il luogo e per il personaggio verrebbero meno, e addio storia: perché scrivere di qualcosa a cui non si porta rispetto?

Nella prima fase, vorrei essere solamente un occhio, un orecchio e un naso. Tutto tranne una bocca. Dopo viene il lavoro sulla voce.

Essendo cresciuto in Emilia, non posso fare a meno di confrontarmi con una tradizione: Celati, Cavazzoni, Cornia, Nori hanno prodotto un canone. Un modo di far girare la frase così apparentemente naturale (pur artificioso quanto altri, perché non esiste un modo naturale di avvicinarsi alla realtà attraverso il parlato), un modello talmente forte che potrebbe trasformarti in un imitatore affascinato e inutile.

Questo problema ho dovuto pormelo, però in ritardo. Sono cresciuto leggendo Pavese, Fenoglio e soprattutto scrittori americani, tradotti da una lingua che non so (Steinbeck e Faulkner su tutti, Flannery O’Connor, più avanti McCarthy).

Rileggo ad alta voce tutto quel che scrivo, mi piace e lo ritengo necessario, oltre che utile al ritmo, per liberarmi da certi trucchetti: se una frase suona finta, se stai facendo il furbo e hai assunto una posa, la lettura ad alta voce non ti perdonerà. Con il tempo, il ritmo comincia a venirti automatico. In questo, mi sento vicino agli scrittori emiliani che ho citato e che stimo. Dall’altra parte, ho bisogno di una storia, e la cerco con grande fatica. Di solito è suggerita dai personaggi, prodotta dalla loro interazione. Ci sono personaggi che mi porto dietro dal mio primo libro, che a volte fanno i protagonisti, a volte i comprimari; di alcuni so già che torneranno: sto costruendo una valle immaginaria (che ha certi punti in comune con la Val Dragone, quella in cui sono cresciuto, ma non è propriamente lei) in cui finora ho ambientato tutte le mie storie. È la mia minuscola Yoknapatawpha, con le dovute proporzioni. È il posto di cui sono costretto a parlare, perché so di non possederlo davvero.

Ho sempre vissuto, spaesato, fra il mondo nel quale le cose si fanno, senza bisogno di tante parole, e il mondo nel quale le cose si guardano; magari con struggimento, ma comunque si guardano, non le si fa: si può soltanto parlarne, irrimediabilmente staccati.

La condizione in cui si vive, oggi, nell’appennino spopolato in cui spesso per lavorare si fa i pendolari da Sassuolo, da Modena o da Reggio, è già di per sé una condizione da spiantati, mentre i boschi si riprendono i campi, gli animali si moltiplicano, devastano e vengono mangiati, e intanto la maggior parte di noi guarda la terra in cui vive con un occhio da turista affezionato, nel migliore dei casi. Chi davvero la lavora, invece, certe domande non se le fa. O chissà che non se le faccia e non entri già così in quel mondo spurio dove sentirsi scollegato da se stesso, inadeguato alla sua terra come mi sento io.

Il giro del miele

L’AUTORE E IL SUO NUOVO ROMANZO – Il giro del miele (Einaudi) è un libro molto intimo: in un paesino non meglio definito dell’Appenino emiliano, due uomini, il vecchio Giampiero e il giovane Davide, trascorrono un’intera notte a parlare, in casa di Giampiero, illuminata e riscaldata dal fuoco, bevendo grappa. Sulla bottiglia incidono una tacca: fino qui e non oltre. Dopo smetteranno. Di parlare e di bere. Erano anni che non lo facevano, dopo tanti rancori, incomprensioni, avvenimenti che li hanno cambiati. All’alba, tutto finirà. E’ una sorta di duello notturno all’ultima parola, all’ultima confessione, fra i due personaggi (il ragazzotto semplice che, spinto dalle circostanze della vita, disperato perché ha perso tutto – il lavoro, con il suo progetto ambizioso dell’apicoltura, l’amore, la moglie che lo ha lasciato, la gioia, conosciuta e perduta – ha lasciato entrare in sé la violenza che non è stato in grado di gestire) e il vecchio aiutante del padre, che del padre ha raccolto l’eredità della falegnameria poi perduta, insieme alla mano, andata bruciata in un incendio terribile).

Quello che racconta Sandro Campani, classe ’74, già autore di È dolcissimo non appartenerti più (Playground, 2005), Nel paese del Magnano (Italic Pequod, 2010) e La terra nera (Rizzoli, 2013), è una sorta di duello notturno, che è la cornice teatrale all’interno della quale stanno tutte le altre parti della storia, rievocate nel pensiero o riferite a voce, costruite pezzo a pezzo in un dialogo a due voci. Una lince apparirà a Davide: simbolo e allegoria di un mondo antico, di una natura i cui simboli oggi ci sfuggono.

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