“L’angelo sterminatore”, il capolavoro di Buñuel, “Aspettando Godot” di Beckett e “Sette piani”, il racconto di Dino Buzzati: tre opere che, come racconta Sara Fruner su ilLibraio.it, si collegano al suo nuovo romanzo, “La luce laggiù”: perché “la letteratura è un brusio continuo. Chi la scrive, non fa che amplificarlo…”

A un certo punto, durante L’angelo sterminatore, un gregge di pecore attraversa l’elegante soggiorno della famiglia Nobile.

Una serata post-teatro fra conoscenti dell’alta società messicana, s’è fatta una cert’ora, convenevoli, baciamani, ma una strana forza tiene tutti chiusi dentro, impedisce loro di varcare la soglia della villa.

Un manipolo di soggetti imprigionati in un’attesa.

Quel tempo sospeso e segregato innesca una concatenazione di fatti bizzarri e comportamenti inconsulti. La padrona di casa comincia a flirtare con un invitato. Un uomo muore e viene nascosto in un armadio. Alcuni invitati sfasciano mobili per accendere un fuoco e scaldarsi — niente legna da ardere a disposizione? Altri, spaccano un muro per raggiungere una tubatura dell’acqua e bere — nessun rubinetto in cucina?

Un gregge di pecore attraversa il salotto.

Il capolavoro di Buñuel costringe chi guarda a interrogarsi sullo stato repressivo imposto da svariati agenti di controllo — la classe sociale, il buoncostume, il Cattolicesimo — e a ragionare sulla pressione a cui il nostro corpo, sociale e individuale, è sottoposto.

Il motivo dell’incantamento che subii davanti a L’angelo sterminatore stava proprio nell’attesa: da luogo di stallo detentivo, l’attesa passa a centro dell’azione simbolica, uno spazio dove cadono maschere, freni inibitori e infingimenti, si spalancano possibilità inaspettate, si disvela l’artificio, e si risolve anche il finale, con la rimessa in moto del meccanismo inceppato: l’unico modo per spezzare il sortilegio che tiene gli ospiti intrappolati nella villa è ripetere le stesse azioni compiute la sera prima. Una specie di rito, che permetta loro di tornare a quella normatività perduta a causa dell’infrazione di un codice borghese — il mancato commiato a un’ora decente.

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L’attesa, dunque, come dispositivo demistificatorio e d’introspezione, che dentro di me ha sovrapposto L’angelo sterminatore ad Aspettando Godot.

Nell’opera di Beckett, i due protagonisti scontano la propria attesa in una brulla campagna in mezzo al nulla. Due vagabondi che non vagabondano da nessuna parte, Vladimiro ed Estragone si rimpallano battute e assurdità per due atti, senza muovere un passo. Un tempo cavo, il loro, che sembra riverberare solo il vuoto, ma che in realtà brulica di cose. Il fatto che i due personaggi s’interroghino in continuazione su dove sia Godot e se sia il caso di aspettarlo o di andarsene è, in sé, la prova che qualcosa sta succedendo.

Che quello stato non è improduttivo.

Senza l’attesa, l’opera stessa non esisterebbe.

È attorno a questa constatazione che hanno preso forma La luce laggiù e il suo protagonista, Moreno Mondo: l’idea che l’attesa sia tanto uno stato detentivo in cui il personaggio espia una sua pena lontano da tutti, quanto un’occasione per lui di ripercorrere ciò che gli è accaduto nella vita fino a quel momento.
Moreno si trova in una stazione deserta. Ha perso il treno e aspetta il successivo. Accanto a sé non ha un gruppo di pari come la comitiva dei Nobile, né un compagno di sventure come nel copione beckettiano. Rimedia alla solitudine sbriciolando reminiscenze in frammenti intimi che restituiscono, in prima persona, porzioni parziali del suo vissuto. Il lettore completa il quadro servendosi della narrazione onnisciente che trova accanto alla versione di Moreno, e che dovrebbe gettar luce sulle zone lasciate in ombra da lui. Ma possiamo davvero confidare nell’onniscienza? Il romanzo ci incalza anche su questo. Gli stessi Buñuel e Beckett espellono dalle loro opere qualsiasi punto di vista oggettivo, autorevole, trascendente. È tutto arbitrario, soggettivo, inaffidabile e laico — film e pièce abbondano di simboli religiosi non per magnificare la religione bensì per metterla in discussione.

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Gli invitati de L’angelo sterminatore, e la coppia Vladimiro-Estragone, sono un po’ dei progenitori di Moreno Mondo, e la parentela è talmente manifesta da affiorare nella storia stessa — Moreno evoca il film di Buñuel, e assiste a una rappresentazione di Aspettando Godot a teatro.

Più sotterraneo e subliminale il legame tra il romanzo e Sette piani. Fulcro del racconto di Dino Buzzati, la degenza del protagonista Giuseppe Corte in un ospedale — altro tipo di reclusione, altra forma di attesa — una struttura dove il male aumenta di gravità con il diminuire dei piani in cui si è ricoverati: il settimo piano ospita i pazienti colpiti in forma leggera, il primo gli spacciati.

Giunta alla fine del romanzo, ho intravisto qualcosa della clinica immaginata da Buzzati. Ma laddove le persiane scorrevoli del primo piano, calate poco a poco, sprofondano Giuseppe Corte in un buio ben più che letterale, una luce “lunga, perfetta” si staglia accanto alla panchina su cui siede Moreno Mondo.

Ho colto allora il dialogare sussurrato tra questi due personaggi, così diversi, così distanti. Così fratelli.
La letteratura è un brusio continuo. Chi la scrive, non fa che amplificarlo.

Sara Fruner La luce laggiù

L’AUTRICE – “Una maga della parola”: è così che André Aciman ha definito Sara Fruner. Dopo L’istante largo (Bollati Boringhieri), Fruner firma per Neri Pozza La luce laggiù, “una storia di attese, di mondi che collimano o si sbriciolano, di amori che salvano”.

La scrittrice e poetessa nata a Riva del Garda, che dal 2017 abita a New York, dove insegna italiano presso il Fashion Institute of Technology, nel suo secondo romanzo scrive di Moreno Mondo, è un fotografo di fama internazionale: da sempre terrorizzato dal rumore della vita, ha trovato in quella forma d’arte un modo per fare silenzio intorno a sé e per dedicarsi all’unica cosa che per lui abbia un senso: la luce. Lo incontriamo in una stazione. Ha appena fatto qualcosa che doveva – voleva? – fare, e ha perso il treno. Si siede su una panchina ad aspettare quello successivo, che però sembra non arrivare mai. C’è solo lui. Lui e la sua attesa. È in quel cono d’ombra, irraggiungibile per gli altri e lontano da dove dovrebbe essere, che il tempo gli si spalanca di fronte, è un regalo inatteso e lo spunto per fermarsi a pensare alla propria vita, ai successi, gli amori, i drammi che lo hanno accompagnato. Dalla tragica morte del fratello minore al diploma all’Accademia con il massimo dei voti, dalla forza di una madre orfana e sradicata alla tragica fine dei nonni materni schiacciati dalla Shoah, dalla violenza indifferente del padre, così terrorizzato dal mondo da sentire come unica possibilità di relazione la rabbia, alla ventata di felicità che ha portato con sé Didi, una donna in fuga, sentimentalmente ambigua, ma che da lui è sempre tornata; Didi che, dove lui si è sempre sentito di brancolare nella camera oscura, lo ha visto come colui che trova la luce nascosta nelle cose, cercatore dei punti di rottura che costituiscono la vera bellezza del mondo. E lo ha salvato.

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