Napoli, la città di “tutte cose”, della Verità e della Menzogna, del Riso e del Pianto, non può che attirarsi un canto di amore e odio da parte dei suoi illustri cittadini: al Piccolo Teatro Grassi di Milano “Sanghenapule. Vita straordinaria di San Gennaro”, con Roberto Saviano (che si mostra in scena con inedita solarità, ironia e grazia) e Mimmo Borrelli, tra i più blasonati drammaturghi italiani – La recensione de ilLibraio.it

Qualcuno è dovuto andare fino in Cina, per trovare lo yin e lo yang, quando bastava scendere a Napoli e scoprire l’acqua calda, cioè che “tutte cose” si tengono, o “tusscoss” per dirla nel dialetto di Milano, dove da poco sono sbarcati due partenopei doc: Roberto Saviano e Mimmo Borrelli, entrambi classe 1979 ed entrambi sul palco del Piccolo Teatro Grassi fino al 17 aprile con Sanghenapule. Vita straordinaria di San Gennaro (ripresa già prevista nel gennaio 2017).

Lo spettacolo è stra-ordinario non solo per il santo: Saviano, che da anni vive nascosto e sotto scorta, finalmente rivede la luce, almeno quella dei riflettori, e si mostra in scena con inedita solarità, ironia e grazia, mentre al compagno toccano le parti luciferine e saturnine, come il giacobino impiccato, l’emigrante truffato e il vescovo infoiato.

I due, autori e interpreti (la regia è di Borrelli), imbastiscono «una Divina Commedia napoletana, con Roberto-Virgilio e Mimmo-Dante», una commedia circolare, articolata in sei «atti di sangue», che riaffabula morte e miracoli di Gennaro, dal 305 d. C. ai giorni nostri. Primo viene il boia, cui seguono la decapitazione del martire, la raccolta del sangue magico, gli scongiuri contro le eruzioni, la rivoluzione partenopea del 1799, la diaspora novecentesca verso le Americhe, «vera emorragia» italiana, e l’eterno ritorno della liquefazione del sangue, che ciclicamente si ripete anche oggi. Non si sa se le reliquie contengano realmente plasma o una sostanza a esso affine (tipo la fucsina); si sa, però, che i miracoli capitano solo a chi ci crede.

Ianuario, cognome del protagonista poi diventato suo nome, è rappresentato in questa pièce come un mito pagano, più profano che sacro; un idolo; un giacobino; un patrono accondiscendente, che accetta tutto, che sa che la «fame vince sulla morale», che ascolta solo i napoletani e gli italiani emigrati all’estero, che si lascia persino insultare in chiesa. Sul patibolo, prima di essere decollato, «quasi rinnega il suo dio», proprio come un povero cristo, «il cristo di Napoli», morto giusto a 33 anni da martire, ma cieco come il veggente Tiresia.

La città di “tutte cose”, della Verità e della Menzogna, del Riso e del Pianto, non può che attirarsi un canto di amore e odio da parte dei suoi illustri cittadini: Saviano, in conferenza stampa, ha parlato esplicitamente di «un gesto di riconciliazione con la mia terra, di cui ho molta nostalgia e in cui vorrei tornare, dopo 10 anni di esilio (Gomorra è uscito nel 2006, ndr)… Il mio atteggiamento nei confronti di Napoli è bipolare: possiede ogni bellezza e ogni male, niente funziona, tutto è vessazione, eppure ovunque trovo il bene, nella luce, nel cibo, nelle persone».

Una delle metafore più potenti della città ancipite è la cacciata di Satana dal consesso celeste: precipitando sulla terra, pezzi di paradiso rimasero impigliati nelle sue ali e, cadendo, crearono il numinoso golfo di Napoli. Viceversa, dall’impatto del diavolo con la superficie terrestre, nacque il Vesuvio, fonte di ogni male per i partenopei, che sotto di esso piazzarono una statua di Gennaro per bloccare le colate laviche. Al centro della scena ctonia, firmata da Luigi Ferrigno, troneggia un albero a testa in giù, appeso fragilmente alla graticcia, forse a suggerire il paradiso capovolto dell’angelo bello, ma caduto, schiantato proprio nel posto in cui la sirena Partenope andò a morire.

Pur napoletanissimo, con atmosfere «presepiali», fantasmi eduardiani, echi di tarantelle e fumi di solfatare, l’allestimento non ha nulla di folcloristico o posticcio, soprattutto grazie alla raffinatissima lingua di Borrelli, una lingua in versi, ovvero in musica (con accompagnamento dei bravissimi Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione) e “more geometrico”, impastata pure del «latino sine flexione» di Peano, il grande matematico degli Assiomi.

Dice Borrelli, tra i più blasonati drammaturghi italiani, che il teatro «è fatto di tranelli e buche dove si incontra anche il mistero», e pazienza per l’inciampo, pazienza se Napoli «non accetta chi dice la verità, e rigetta chiunque ne racconti l’ombra», prosegue Saviano. «Io sono un abusivo del teatro, ma il teatro dà cittadinanza proprio a chi non ne ha, e quindi anche a me. San Gennaro mi ha insegnato che il sangue si secca e si scioglie, e che vale sempre la pena tentare di sciogliere il sangue, persino dei morti ammazzati. Spesso mi sono chiesto se ciò che ho fatto valesse veramente la pena, e quasi sempre mi rispondevo di no. Eppure, insegna il santo, non tutto è stato vano o inutile: il grumo può sempre sciogliersi, e la traccia di sangue rimanere».

Come scrisse Testori, «il teatro non deve far altro che cercare, che ascoltare questa macchia di sangue, questo grumo di sangue, questo lacerto umano, entrarci dentro, mescolarsi con lui e pregarlo». Ed è a suo modo una preghiera in forma di bestemmia, o una bestemmia in forma di preghiera, lo straziante monologo finale di Borrelli su Napule: una «colata di lava vesuviana» che seppellisce, ma pure eterna, la città e i suoi abitanti.

Sempre per prodigio napoletano, o coincidenze sanguigne, Adelphi ha appena pubblicato Piccolo teatro di Tullio Pericoli: una raccolta di ritratti – dolenti, bellissimi – di Toni Servillo, immortalato dal pittore mentre interpreta, manco a dirlo, il carme di Borrelli: «Napule che spare./ Napule sempe in guerra./ Napule tene ’u mare/ marrò … accomme a terra».

nota: la foto grande è di Ceva Valla

Fotografia header: SANGHENAPULE, Saviano, foto di Ceva Valla

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