“È un paradosso essere sfrattati da una casa popolare. Anche da una casa popolare. È un paradosso tragico…”. Giuseppe Marotta esercita la professione presso la Corte d’Appello di Milano. E ai lettori de IlLibraio.it racconta con emozione (e dolore), dal suo punto di vista molto ravvicinato, “la rabbia che spira nelle periferie delle nostre città in questi giorni infuocati…”

Viene da lontano il vento di rabbia che spira nelle periferie delle nostre città, in questi giorni infuocati. È un vento che si è annidato, negli ultimi anni di crisi, negli antri scuri delle case popolari, e oggi che sono iniziati gli sgomberi degli appartamenti dai cosiddetti abusivi è sceso lungo le scale di cemento scarabocchiate di graffiti, ha percorso i marciapiedi sbrecciati e ha bloccato le strade sporche in segno di protesta.

Le case popolari: già il nome rimanda a qualcosa di stantio, di obsoleto, di puzza di lotta di classe. Le case dei popolani, di quella marmaglia che non merita nulla di più che appartamenti dozzinali in cui vivere stipati come nei pollai. Il popolo, lasciato così, “…come una cosa posata in un angolo e dimenticata…”, come chiedeva di essere lasciato Ungaretti in una sua bella poesia. Ma di poetico, in quei quartieri popolari, non c’è rimasto più nulla.

E in questi giorni che monta la sommossa, la telecamera del Tg punta l’occhio sui cassonetti dell’immondizia che sputano fiamme, o sui giovani impertinenti dei centri sociali che rivendicano il diritto alla casa e al lavoro, o indugia sulle randellate della celere ai ragazzi che difendono l’ennesima mamma sfrattata con i bambini. I giornali parlano degli scontri come se fossero qualcosa di alieno al corpo delle città: eppure Tor Sapienza è a pochi chilometri dal Campidoglio, il quartiere Corvetto o il Giambellino sono a pochi minuti dal Duomo di Milano. E il conflitto sale, si autoalimenta di queste scene lette o viste alla tv e le speculazioni di tutti i partiti politici si sprecano.

È un paradosso essere sfrattati da una casa popolare. Anche da una casa popolare. È un paradosso tragico perché sai che dopo, non ti rimane più nulla. Sai che ti aspetta solo la strada. È l’incertezza il filo conduttore di questa protesta che si propaga in un’Italia che si appresta, paradossalmente, a ospitare l’Expo. L’incertezza di non sapere dove andrai una volta che ti hanno sfrattato, anche da qui. Anche da una casa popolare. E l’incertezza genera violenza, genera razzismo, genera lotta di classe.

“Qui le case popolari le assegnano agli extracomunitari e non agli italiani: dovrebbero pensare prima a noi e poi a loro”, protestano quasi sempre tutti così quelli che stanno subendo uno sfratto. “Dove andrò con i miei bambini”, urla una donna del quartiere milanese Corvetto, davanti alla telecamera. E “dove andremo a dormire stasera?”, me l’ha ripetuto, appena due giorni fa, Samia: la ragazzina dodicenne, che ho accompagnato con la sua famiglia dagli assistenti sociali, dopo averla sfrattata. Samia è una piccola pakistana dalla grande dignità. Frequenta la seconda media e parla italiano correttamente. Per tutta la mattinata, durante lo sfratto, ha tradotto per sua madre tutte le mie parole. Mi affannavo a spiegare alla signora che era giunta al capolinea e che doveva uscire dall’appartamento. Ma lei, niente. Supplicava la piccola Samia di chiedermi ancora una proroga, e Samia m’implorava. Ma io, niente. Non ho ammesso ragioni: l’avevo già rinviato più volte il loro sfratto, e ho proceduto. Sapevo di non poter fare altro che obbligarle a uscire dall’appartamento. Niente più proroghe: “siamo stati un Paese che ha concesso fin troppe proroghe in tutti questi anni. Ma ora basta. Non si rinvia più.

Tolleranza zero contro gli abusivi”, ha ripetuto il ministro dell’interno, Angelino Alfano, davanti alla telecamera. E così al Corvetto sono andati giù duri, l’altro giorno. E la mattina precedente, c’erano state altre botte della celere al Giambellino. Per anni a Milano l’Aler, l’azienda che gestisce le case popolari, ha perso il controllo degli alloggi vuoti che sono finiti in mano alla criminalità organizzata che li ha “assegnati” facendosi pagare il pizzo. E mi chiedo come mai la celere non sia stata utilizzata allora per controllare che non ci fossero abusi, per gestire le assegnazioni degli alloggi popolari in maniera trasparente.
Nonostante la crisi abbia reso tutto più difficile, oggi, chissà perché, si opta per la tolleranza zero. Ecco l’errore che non dovrebbe mai commettere un governo: rendere un problema sociale un problema di ordine pubblico. E invece lo sta commettendo questo errore, alla grande. Non occorre essere fini sociologi per comprendere che garantire un tetto a chi non ha i mezzi per pagare un canone è la strada più efficace per spegnere la rabbia che monta nelle periferie, e non solo; è lo strumento più idoneo per ritrovare la pace sociale. Perché la soluzione di questo dramma apporterebbe benefici concreti non solo alle famiglie che spesso, raggiunte dallo sfratto, implodono, si sfasciano logorate dai nervosismi dell’incertezza, dal non sapere più a chi chiedere aiuto, ma anche a un sistema giustizia ingolfato dalle migliaia di udienze di convalida di sfratto che si tengono ogni mattina nelle aule dei tribunali. Risolvere il problema degli sfratti dovrebbe essere l’obiettivo primario dell’azione di governo, di quel governo ahimè, oggi forse troppo impegnato a provare i vestiti nuovi da indossare durante l’Expo.

 

Sfrattati Corbaccio

*L’autore di questo sentito, intervento, Giuseppe Marotta, è nato a Pompei nel 1966. Mentre frequentava la facoltà Scienze politiche a Napoli, per mantenersi agli studi ha partecipato a un concorso presso il ministero di Grazia e Giustizia e ha ottenuto il posto di commesso giudiziario a Milano. Una volta laureato, ha continuato la sua carriera durante gli anni di Mani pulite diventando ufficiale giudiziario, professione che attualmente esercita presso la Corte d’Appello di Milano. Scrivere è la sua passione. Corbaccio ha pubblicato I bambini osservano muti. E il 5 febbraio 2015 sarà in libreria Sfrattati.

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