In “Attraverso la vita” di Sigrid Nunez (già vincitrice del National Book Award) la narratrice si ritrova a fare da spalla alla sua amica malata di cancro terminale. La malattia diventa ciò che guida una scelta di fine vita e, di conseguenza, il modo in cui si sviluppa il romanzo stesso, in cui trovano spazio anche aneddoti divertenti, riflessioni sulle relazioni famigliari, ricordi di vita passata e di tensioni ancora scoperte…

La narratrice di Attraverso la vita di Sigrid Nunez (Garzanti, traduzione di Paola Bertante) si ritrova a fare da spalla alla sua amica malata di cancro terminale, che vuole regalarsi, come ultima idea di vita, la possibilità di “fare una bella morte. Tutti sanno cosa significa. Senza dolore o almeno senza spasmi e agonie. Andarsene in modo composto, con un po’ di dignità. Puliti e asciutti.”

Quando incontriamo le due donne all’inizio del romanzo, l’una è molto convinta di ciò che desidera: un posto dove andare a morire, dove far succedere il momento esatto della morte, in cui persino la sua amica-narratrice, che fino a quel momento sarà stata la sua testimone, non potrà entrare.

Quando le salutiamo alla fine l’una si è definitivamente ritirata in sé stessa e l’altra riceve una sorta di lascito, suo malgrado, che si esprime fisicamente in un attacco di panico che le prende perché sente scivolare via la vita.

La morte, il dolore, il silenzio e la vita subiscono una trasformazione sostanziale all’interno del romanzo: passano da essere lo sfondo del quotidiano e dell’emotività di entrambe, le basi della loro amicizia, a marmorizzarsi in concetti assoluti, che la narratrice vorrebbe raccontare.

Per tutto il romanzo, mentre si passa attraverso gli ultimi periodi di una vita terminale, la narratrice ci racconta con qualche vena di incredulità ciò che accade: gli alti e bassi della salute, dell’umore, la casa dove vanno a vivere insieme – il desiderio di una bella morte comprende anche un luogo in cui questa debba svolgersi – e poi quella della sua amica dove effettivamente passano gli ultimi momenti insieme. Il racconto è incastonato tra il presente e il passato, non è pedissequo, ma segue i connotati della memoria: è a volte sfuggente, altre dettagliato, con uno stile godibile e un ritmo sincopato, che schiude perfettamente il senso stesso di ciò che si racconta.

La malattia, che è causa implicita del racconto, non si fa mai vedere, non è fisica, non è nemmeno particolarmente vivida: è una premessa lasciata al lettore che porta con sé un modo di raccontare la vicenda.

La malattia diventa ciò che guida una scelta di fine vita e di conseguenza il modo in cui si sviluppa il romanzo stesso: c’è una prima parte, in cui il termine sembra ancora lontano, in cui succedono delle cose e c’è ancora il tempo di conoscere persone, in cui l’amica della narratrice non sembra nemmeno malata; si passa a una seconda parte, più breve dell’altra, in cui le due vanno a vivere nella casa prescelta ad accogliere la morte, trovandosi di fronte a una serie di imprevisti; nella terza, infine, la narratrice ci svela l’intento di tenere un diario degli ultimi giorni della sua amica, e il suo fallimento: “Persino prima di cominciare, sapevo che qualsiasi descrizione fossi riuscita a imbastire sarebbe stata nella migliore delle ipotesi marginale, mentre la cosa in sé mi sarebbe sfuggita, come il gatto che non vedi mai uscire di casa quando apri la porta. Si parla tanto di trovare le parole giuste ma, per le cose importanti, le parole non si trovano mai.”

La narratrice, quindi, assume delle funzioni differenti, a seconda del momento: è incredula prima, perché si lascia trascinare dentro questo progetto di morte e desiderio, che si mescolano insieme, senza che né lei né la sua amica sappiano esattamente misurare le dosi giusto del miscuglio. La narratrice in prima battuta arranca, perché non sa cosa aspettarsi. La sua vita è ancorata alle regole della vita normale di chiunque che viene turbata dalla richiesta di supporto e di presenza, ma anche di condivisione del tragitto – scegliere un posto, trasferirsi, essere all’oscuro del momento preciso in cui la sua amica morirà la getta in una cornice nuova, in bilico ma tutto sommato sopportabile.

È la malattia che le rovina l’orizzonte: a dispetto di un desiderio di “fare una bella morte, in una bella casa, in una cittadina pittoresca, in una splendida notte d’estate”, la narratrice si trova davanti un ostacolo che deturpa il progetto, lo rimette sulla strada dell’inevitabile, ne accelera il fallimento. Ecco che la seconda e la terza parte del romanzo prendono velocità, ci avvicinano una pagina alla volta alla fine. Le esistenze delle due donne si fanno sempre più parallele e Sigrid Nunez pare suggerirci tra le righe il motivo: chi vive e chi muore, in parti uguali, rimangono soli e non c’è in alcun modo qualcosa che possa dire il contrario, non ci sono parole che vale la pena scrivere.

Come ne L’amico fedele, anche in Attraverso la vita si ritrovano alcune sensazioni di lettura legate all’attesa del tempo, alla difficoltà e al significato di essere spettatori di qualcosa di più grande, ma se nel romanzo vincitore del National Book Award si prova a elaborare un lutto, qui la morte deve ancora succedere, quindi ora perseguita, ora viene dimenticata, in un botta e risposta continuo che tutto sembra fuorché un destino ben pianificato e anzi lascia spazio alla compassione e all’empatia. La morte finisce per essere incontrovertibile, certo, ma solo quando è davvero vicina; prima sembra addirittura governabile e subisce gli effetti di ogni cosa della vita umana: l’imprevisto, la certezza disattesa, il fallimento.

In questo romanzo, Sigrid Nunez racconta un intento di pacificazione delle protagoniste – con loro stesse, con la vita, con i ricordi più dolorosi – ed è per questo che sullo scheletro della vicenda principale, l’autrice fa scivolare aneddoti divertenti, riflessioni sulle relazioni famigliari, ricordi di vita passata e di tensioni ancora scoperte. Dopotutto, si può anche decidere di morire, ma finché non arriva un momento in cui quella è l’unica – l’ultima – cosa che conta c’è tempo per leggere, scrivere, ridere, angosciarsi per un rapporto mai sanato o confidarsi con un ex marito.

Attraverso la vita ci lascia il dubbio che nessun piano ben congegnato, nessuna casa, nessuno spazio o nessuno che più o meno consapevolmente si mette accanto a un percorso di morte possa davvero essere uno spettatore consapevole e dunque “fare una bella morte” è impossibile. Al contrario, dovrebbe essere facile la sua descrizione, la sua riproduzione su pagina e invece a essa si accompagna sempre, anche se solo per poco, un senso di sacrificio, di sofferenza e di inazione.

L’amica della narratrice, infatti, si ritrova a vivere una sorta di ossessione: “Più avanzava nel suo viaggio, meno desiderava essere distratta”, scrive Sigrid Nunez.

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