“Nessuno mi volle credere, alcuni anni fa, quando incontrai uno dei miei sosia. Non mi volle credere nemmeno lui…”. Yari Selvetella, autore del romanzo “Vite mie”, parte dalla propria esperienza personale per offrire su ilLibraio.it una riflessione sulle “parentele non reciproche” e sulle nuove forme di famiglia…

Nessuno mi volle credere, alcuni anni fa, quando incontrai uno dei miei sosia. Non mi volle credere nemmeno lui, fermo al semaforo come a un posto di combattimento, con le mani sul volante e l’aria pronta allo scatto. Ero lì da pedone, lo notai, mi specchiai in lui e gli sorrisi; mi aspettavo che da un momento all’altro avrebbe ricambiato il mio stupore. Si accorse di me, credo, però la somiglianza non gli fece effetto. Al verde partì e per poco non mi investiva. Raccontai dell’incontro anche a casa ma nessuno mi prese sul serio, forse perché chi vive con gli scrittori è abituato alle nostre esagerazioni: probabilmente quel tale e io non eravamo proprio due gocce d’acqua.

Potrei dire che per me scrivere è sentirmi simile agli altri più di quanto gli altri non si sentano simili a me. Mi è capitato anche con questo romanzo, Vite mie, così spudoratamente ispirato a esperienze personali e familiari, così ambiziosamente tentato di assimilare i fatti miei a quelli di altri, lontani da noi.

È la storia di una famiglia basata su quelle che definisco “parentele non reciproche”, in cui cioè l’amore che si prova nei confronti degli altri non è necessariamente biunivoco: puoi amare qualcuno esattamente come un figlio, anche se è nato da un padre o da una madre che non sei tu, puoi amarlo come un figlio anche se non ti considera suo genitore o se solo parzialmente rivesti questo ruolo nella sua vita; puoi considerare fratello o sorella anche qualcuno che non è pronto a sentirsi tale, e così via.

Vite mie è la storia di una famiglia in cui il nome di battesimo è, per ciascuno, un’idea di rapporto umano: quello che l’uno rappresenta per l’altro è nella storia personale, nella vita insieme, nell’esperienza quotidiana. Anche se i moduli dell’ISEE impazziscono, anche se la legge fatica a inquadrare questi legami, anche se bisogna pagare avvocati e impiegare litri d’inchiostro per spiegarli al tribunale dei minori e ai giudici tutelari, anche se per la legge una famiglia così rischia di essere un ente che non esiste e non merita tutela, questo gruppo di persone decide di stare insieme e non lo fa per alcuna ragione che non sia l’amore. A parte i più piccoli, tutti avrebbero a disposizione delle soluzioni alternative ma scelgono di costituire una comunità che si basa essenzialmente sul sentire di esserne parte, oltre ogni riconoscimento.

Questo noi così morbido, così mobile da ricomprendere anche molte altre persone, molti altri affetti, si è edificato per via di avventure e casi – per dire così – specifici, a volte lieti, altre volte spiacevoli, e talvolta tragici. Coppie scoppiate, nuovi personaggi che entrano in scena, malattie, lutti, rinascite, amori. Eppure da queste contraddizioni è nato qualcosa di bello. Ho avuto voglia di scriverne perché sentivo che il trascorrere degli anni stava conducendo ciascuno di noi a nuovi assetti di vita e volevo raccontare prima che tutto scivolasse nelle edulcorazioni e nelle malinconie del ricordo.

E come quel giorno di alcuni anni fa mi è parso di assomigliare al sosia del semaforo, così ora sento che questa vicenda complessa e per molti versi dolorosa ha molto a che spartire con la storia di tanti, apparentemente lontani e diversi. Crescere figli non propri, avere accanto qualcuno che porta in sé i lasciti e gli strascichi degli amori passati, sottoporsi a operazioni mediche per avere figli, intraprendere battaglie legali per adottarli, averli avuti troppo presto. Oppure poter vedere i figli solo nel fine settimana, essere fuggiti e voler tornare, o ancora sognare la fuga e riuscire solo a restare, vagheggiare il tempo libero della gioventù e non sapere che cosa farsene di un pomeriggio improvvisamente libero; lottare, lottare con tutte le forze perché i traumi subiti non ci confinino nel recinto della paura, cercare di trasformarsi in una cicala o in un serpente, per lasciare su una corteccia o tra gli sterpi la pelle troppo a lungo abitata. Tutti dobbiamo imparare o re-imparare ad amare, a farlo nel modo giusto.

Gli schemi moralistici e i dibattiti fatui vorrebbero semplificare, separare con l’accetta quello che è giusto da quello che è sbagliato. Siamo in molti ad assomigliarci, invece, negli errori e nelle fortune. Il mio modo per dirlo è stato imbastire una vicenda che è molto vicina alla mia vita, alla nostra storia familiare. Sarebbe stato fin troppo consolatorio cercarla in una pagina come in uno specchio sano: il mio, il nostro specchio si è frantumato in mille pezzi e da ciascun frammento mi rimanda uno sguardo, un punto di vista, una pluralità di voci, di entusiasmi e di guasti, di godurie e di miserie, un chiacchiericcio interiore, un coro social in cui districarsi per cercare di capire almeno qualche parola, e di farne tesoro. È così che ho iniziato a scrivere: per convincere qualcuno che uno dei miei sosia e io ci assomigliamo davvero.

Yari Selvetella Vite mie

L’AUTORE – Yari Selvetella, giornalista e autore televisivo, è nato a Roma nel 1976 e lavora per la Rai. Tra i suoi ultimi romanzi Le regole degli amanti (Bompiani, 2020),  Le stanze dell’addio (Bompiani, 2018) e La banda Tevere (Mondadori, 2015). Selvetella, che ha pubblicato anche il libro di poesie La maschera dei gladiatori (CartaCanta, 2014), si è a lungo occupato di storia della criminalità con saggi e reportage.

Il suo nuovo romanzo, Vite mie (Mondadori), è pervaso di riflessioni sull’amore, sulla famiglia, sul nostro rapporto con il tempo che passa. Un viaggio generazionale nell’esperienza di definizione dell’identità e di accettazione della mortalità.

Amare non è sufficiente, bisogna sapere come si fa. Talvolta una vita non basta a impararlo per bene, oppure l’abilità coltivata negli anni si dissolve misteriosamente e non rimane altro che un senso di inadeguatezza e di nostalgia. Serve più di una vita, a Claudio Prizio, per poter sentire che sta davvero ricominciando da capo. Claudio chiede riparo, come ha sempre fatto, alla famiglia, ma anche gli equilibri domestici si stanno ormai modificando. La sua è una famiglia particolare e al tempo stesso normalissima, che custodisce grandi dolori, legami insoliti e momenti di autentica felicità. Tutti devono trovare la forza di lasciar andare il passato: la sua compagna Agata, i suoi quattro figli e soprattutto lui.

Claudio cerca sé stesso in casa, ma anche nella sua città: Roma è così prodiga di incontri che finisce per stordirlo in un vortice di coincidenze. Da qualche tempo, infatti, Claudio non fa che ravvisare somiglianze tra sé e le persone in cui si imbatte: un guidatore distratto che quasi lo investe al semaforo, un rocker attempato, un agente immobiliare, una donna che si è rifugiata in campagna. I suoi simili sono specchi, ma anziché aiutarlo a comprendere la propria identità, sembrano avvilupparlo in un gioco di riflessi senza scampo. Come si fa a passare oltre preservando la memoria, ma senza diventarne schiavi?

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Fotografia header: Yari Selvetella foto di Nina Tyler

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