“La nursery”, il romanzo di Szilvia Molnar, restituisce un ritratto della maternità spogliata dagli stereotipi e dal mito dell’amore incondizionato per i propri figli sin dal primo momento…

Come cambia la vita di una donna quando diventa madre? Cosa l’aspetta appena dopo il parto, al rientro a casa?

Il romanzo di Szilvia Molnar, La nursery, (Guanda, traduzione di Francesca Pellas) dà una risposta a queste domande. Non la sola possibile, certo, ma una risposta quantomeno autentica, che restituisce un ritratto della maternità spogliata dagli stereotipi e dal mito dell’amore incondizionato per i propri figli sin dal primo momento.

La protagonista e narratrice è una traduttrice di letteratura svedese di cui non conosciamo che un vecchio soprannome, Miffo. Anche il nome di sua figlia non è mai svelato e la madre si limita a chiamarla Bottone, depersonalizzandola, perché è come un bottone cucito addosso, sulla pelle, da cui Miffo capisce che non potrà più staccarsi.

Il parto segna inevitabilmente un prima e un dopo nella sua vita: prima di Bottone, le giornate di Miffo trascorrevano immerse nel lavoro di traduzione, le ore passate alla scrivania a riflettere davanti a un manoscritto o a passeggiare all’aria aperta in cerca di ispirazione. Dopo Bottone non c’è più libertà (sono prigioniera della cosa che ho creato, Bottone l’ho fatta io, l’ho voluta, e ora non posso uscire da questa situazione) e la scrivania è un’amica lontana.

La nursery di Szilvia Molnar

Anche il corpo femminile ha un prima e un dopo. E il dopo è quello di un corpo in frantumi che, forse è meglio non guardare per i primi due mesi, come consiglia l’infermiera dell’ospedale. Un corpo che ha fatto la guerra e l’ha persa e ora continua a sanguinare. E a produrre latte: prima facevo la traduttrice e ora faccio il distributore di latte, si ripete Miffo a ogni poppata.

Così Molnar descrive una maternità fatta di disagio e paura, di latte sporco che impregna i vestiti, la stanza, le narici. Fatta di “chi me l’ha fatto fare?” e di invidia per un marito, John, che conserva intatta la sua vita precedente, un corpo bello e sano, il lavoro al sicuro, il sonno quasi ininterrotto.

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Il double standard è evidente: subito sollevato all’idea di una figlia nata nel fine settimana, infatti, John torna alla sua quotidianità dal lunedì successivo solo sfiorato da questa nuova paternità. Ogni mattina lascia Miffo sola con la bambina e rientra la sera, pronto a cenare insieme e a badare alla figlia giusto i quindici minuti necessari alla moglie per una doccia veloce. E, vinto dalla stanchezza, il padre può concedersi il lusso di mettere i tappi per fuggire i pianti notturni di Bottone, tanto la madre è sempre all’erta.

Il tempo scorre diversamente nella vita della neomamma e la narrazione lo riflette: non c’è mai un vero inizio o una vera fine ai pensieri di Miffo, il suo riflettere procede in maniera indefinita (ma con un piglio sempre esistenzialista) e i giorni si confondono tra loro (oggi, come ieri, quindi diciamo domani). E in questa confusione dettata dalla privazione del sonno e da una depressione latente, si fanno spazio in lei pensieri intrusivi, di morte: e se il cuscino in qualche modo le finisse sopra e la soffocasse? Che male potrà mai fare scuoterla un po’?

Ma Miffo è una traduttrice e non ha paura delle parole, persino di quelle apparentemente più orribili. Per questo prova a capire, interpretare e tradurre il suo delirio, il dolore del proprio corpo, i pianti incessanti di Bottone.

E intanto, chiuse all’interno della loro prigione casalinga, mamma e figlia continuano a ballare una danza a due, che non si può fermare e che le tiene morbosamente attaccate l’una all’altra. A interrompere questo tango di pura sopravvivenza, ci sono però le visite del vicino del piano di sopra, uno strambo signore anziano che trascina dietro di sé la bombola d’ossigeno che lo tiene in vita.

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Questo legame inaspettato, fatto soprattutto di silenzi e di ricordi reciproci, sarà in qualche modo l’unica valvola di sfogo per Miffo, una piccola abitudine quotidiana da coltivare nell’attesa del ritorno al mondo esterno. Ma ogni cosa a suo tempo.

Uscire dall’appartamento sarà infatti il primo passo per Miffo verso una nuova vita da costruire, giorno per giorno, prima con se stessa e poi con la figlia e il marito.

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Fotografia header: Szilvia Molnar, credit Ben Mistak

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