Un teatro vivo, palpitante, che rimette al mondo e promette benissimo (su tutti i fronti: scrittura, regia e interpretazione): alla scoperta di “Come nei giorni migliori” del giovane Diego Pleuteri, visto in anteprima italiana al Teatro Gobetti di Torino

Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore a teatro? Aprendosi ironico e formulaico su un giro di frase che potrebbe avvolgere un Bacio (Perugina o di Hayez) con le parole di Sant’Agostino (“Ama e fa’ ciò che vuoi”, ma che cosa vuoi, poi, per davvero?), il giovane attore, autore e drammaturgo Diego Pleuteri, classe 1998, già prezioso collaboratore nella versione di Lidi del Misantropo di Molière dello scorso anno, s’interroga, con questa rom com inattuale, e perciò fresca e presentissima, sulla scena del sentimento, i suoi clichés e insieme la sua essenza ondivaga e rivelatrice.

Qui mette insieme e restituisce, complici i giovani e talentuosi Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese, in uno spettacolo su commissione tuttavia portatore di un’urgenza percepibile, di necessità politica antiretorica e divertimento generativo e contagioso, per proposta e felice regia di Leonardo Lidi (prodotto dal Teatro Stabile di Torino; visto il 7 maggio al Teatro Gobetti di Torino), molti e decisivi frammenti del discorso amoroso, in ogni senso.

Si parte dell’ascolto (una seduta analitica origliata), si passa allo sguardo (in una sala di museo sotto gli occhi dei santi) ma, attraverso – letteralmente – una doccia fredda e – metaforicamente – un parchetto oscuro, il falling in love è inziazione, nuovo inizio che passa per tutto il corpo e l’anima acerbi dei protagonisti in cerca di significato, di relazione e di futuro, in un precipitato partecipe di situations comedy (romantiche, con inevitabili risvolti melò) che si alternano e sovrappongono su una scena spoglia e disordinata, resa vivida e immaginabile dalle traiettorie e dalle schermaglie di due corpi desideranti che si esercitano instancabili con i topoi del genere (convivenza, paternità, progetto, gelosia, abbandono, litigio…), al di là del genere (con la precisa intuizione di fare uno statement politico implicito proprio nel non esercitarsi in una militanza didascalica e vittimistica, ma presentando la normalità e l’universalità di ogni passione).

Chiamandosi per gioco con altro nome, rispettivamente di signora Fletcher e Billy (Elliot), con immaginario ludico un un po’ retrò, gettati in un’investigazione danzante sui fantasmi (cinematografici e teatrali, e dunque esistenziali) dell’attrazione e della perdita, in una Milano fatta di luoghi comuni dell’urbanistica sentimentale odierna (la discoteca, la galleria, l’aeroporto, il supermercato, la palestra, il pianerottolo), i due protagonisti, il timido e l’ambizioso, il convenzionale e il competitivo, il casalingo e l’avventuroso (L’elefante e la farfalla per dirla con zarrilliano momento karaoke), si avvicinano e interpellano il pubblico, in un gioco di specchi, fra identificazione e ironia, che ci restituisce un’immagine di noi, anche una soluzione registica disvelante che fa riflettere, alla lettera, la platea.

La prossimità e la prossemica dei due attori, che, giù dal palco, in una palestra del cuore e in una giostra degli amorosi sensi (fra ec-citazioni e Allen-amento, di Woody), si avvicinano, ci accerchianno, toccano con complice gentilezza e giocoso tatto gli spettatori, in uno spazio scenico insieme svuotato e unico (il neoclassico Teatro Gobetti di Torino, allestito per un centinaio di posti), per un’esperienza in situ e universale di corpo a corpo, nella quale il canovaccio della commedia romantica, scherzando intelligente con archetipi e stereotipi, racconta il campo gravitazionale, e sportivo (geniale la citazione del paddle come epitome à la page della società della performance), facendo correre a perdifiato le nostre emozioni e battere forte il cuore, come i corpi (celesti, stellari e grondanti di luce e di sudore) sulla scena.

Trattasi di un teatro vivo, palpitante, che rimette al mondo e promette benissimo (su tutti i fronti: scrittura, regia e interpretazione), capace, con le risorse del talento di iniettare nuova linfa nella moda talvolta consolatoria e corriva del romance, che domina nel mondo dei libri. Lo fa senza indulgere nel lacrimevole e sapendo sorridere dei propri meccanismi e convenzioni. E senza prendersi troppo sul serio. Proprio in questa passione ludica non perde per un istante la sua (del teatro, dell’amore?) forza rivoluzionaria.

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