Docu-serie, podcast, libri: dagli Usa all’Italia il true crime conquista un pubblico sempre più ampio. Stando ai dati, si tratta di un “target” in maggioranza femminile. Come mai? In questa riflessione, a tratti provocatoria, le risposte di Matteo Lena, che ha dedicato il suo primo romanzo, “L’ossessione del ragno”, alla storia del Mostro di Udine, e che da autore e regista tv negli ultimi anni ha spesso raccontato casi cronaca nera: “Probabilmente leggere, ascoltare e conoscere queste storie permette ad altre donne di imparare tecniche di sopravvivenza utili nella vita reale”. Ma “a studiare dovrebbero essere gli uomini…”

Non so perché il genere true crime abbia così tanto successo. Forse perché in questa epoca di finzione, in cui tutto è artefatto e filtrato, abbiamo bisogno di un true-pugno in faccia, di storie vere e violente che catturino la nostra attenzione e suscitino in noi – sempre così annoiati, assuefatti e distratti – emozioni che ormai fatichiamo a provare.

Forse il true crime piace perché racconta il buio e il buio ci fa paura, ma allo stesso tempo ci attrae. Il buio è il mistero che solletica la nostra fantasia e le nostre paranoie inconsce, è l’ignoto che può farci tremare e inchiodare con le spalle al muro, oppure spingerci al di là dei confini già mappati. È la paura del buio che ci ha spinto a inventare il fuoco ed è il fuoco che ci ha fatto vincere i mostri.

Insomma, il true crime potrebbe essere un po’ come i cruciverba della settimana enigmistica: un esercizio un po’ macabro, ma che aguzza l’ingegno. Così nel tempo libero, tutti amiamo improvvisarci detective, soprattutto se possiamo stare sbracati su un divano o sotto un ombrellone senza rischiare un proiettile in faccia.

A me, per esempio, questo genere non interessava minimamente finché per lavoro non mi è capitato di occuparmi di una serie di casi cronaca nera per il canale tv Crime + Investigation (dal 31 ottobre 2023 Sky Crime).

Faccio l’autore e il regista e spesso lavoro su commissione, cioè non scelgo io i soggetti da scrivere o realizzare: me li propongono direttamente i broadcasters o le case di produzione.

Così mi è capitato di girare una docu-serie in quattro episodi sul Mostro di Udine, una in due episodi sulla Mantide di Casandrino, una sulla Strage di San Gennaro e un’altra ancora sull’omicidio di Gaia e Camilla, due sedicenni che sono state investite da un SUV, mentre attraversavano le strisce pedonali su Corso Francia a Roma.

Per fare questi documentari ho dovuto scartabellare i fascicoli delle indagini, visionare le foto dei cadaveri, ascoltare le intercettazioni, leggere i verbali degli interrogatori, intervistare gli inquirenti, i testimoni, i sospettati e conoscere di persona i familiari di alcune vittime. Per certi versi – è inutile negarlo – questa è una tv del dolore. Può essere fatta con tatto e rispetto nei confronti delle persone realmente coinvolte in queste tragedie private oppure si può “sbattere il mostro in prima pagina” e picchiare i tamburi in piazza. I processi e le esecuzioni pubbliche hanno sempre attirato grandi folle, anche quando si usava la ghigliottina.

Evidentemente il sangue ci piace: ci piace sfrugugliare nella mente di chi commette una violenza gratuita, trovare qualcuno da odiare, da condannare e castigare, conoscere i dettagli di un omicidio, la larghezza in centimetri di una ferita, il calibro in pollici di un proiettile, il numero esatto delle martellate. Il crime è un genere che tira – dicono gli esperti di marketing – e questo eccita i direttori di rete, le piattaforme streaming e gli editori di libri. Dolore e ingiustizia sono le fonti rinnovabili dei produttori di true-crime, che siano podcasters, scrittori o documentaristi.

Il trucco è indignare la coscienza del pubblico e dipingersi come i paladini della giustizia, denunciando gli errori e gli abusi delle forze dell’ordine, la lentezza e la pochezza degli investigatori, stando sempre dalla parte delle vittime, che possono essere di volta in volta donne, bambini, vittime di bullismo, di razzismo o sessismo, purché siano deboli, indifese e suscitino tenerezza o pietà.

Ma c’è un altro aspetto che mi incuriosisce molto riguardo al successo internazionale di questo genere: il target è in maggioranza femminile. È un dato che emerge chiaramente dall’analisi degli ascolti dei canali tematici dedicati alla cronaca nera: il true crime piace soprattutto alle donne. Sui social la maggior parte dei libri true crime viene recensita da donne, il 70% degli ascoltatori di podcast di genere crime sono donne. Al CrimeCon e al CrowdSolve, fiere organizzate negli Stati Uniti per tutti gli appassionati di cold case, l’80% dei partecipanti sono donne. Perché insomma Chi l’ha visto?,  Un giorno in pretura, Storie maledette o Indagini, il podcast di Stefano Nazzi, piacciono soprattutto alle donne?

Divagherò, semplificherò, ma cercherò di trovare una risposta parziale, drastica e provocatoria. Forse perché la maggior parte delle storie di violenza raccontate in questi prodotti culturali vedono le donne come vittime, quindi leggere, ascoltare e conoscere queste storie permette ad altre donne di imparare tecniche di sopravvivenza utili nella vita reale, dato che in Europa una donna su tre subisce una qualche forma di violenza fisica a partire dai quindici anni e l’Italia è tra i primi cinque paesi in Europa per numero di femminicidi: 90 in soli 9 mesi nel 2023. Parliamo di omicidi intenzionali dettati dall’odio di genere, omicidi che nella maggior parte dei casi avvengono dentro le mura domestiche per mano di mariti, fidanzati, amanti, ex e parenti. Forse le donne sono terrorizzate dall’Uomo Nero che dorme loro accanto, temono che quella persona che sembra degna di fiducia potrebbe un giorno trasformarsi in un maschio violento, un assassino o un serial killer. Queste moderne fiabe true crime suggeriscono a un pubblico femminile adulto consigli subliminali e pratiche utili all’autodifesa. Forse il genere true crime piace così tanto alle donne perché sono interessate a comprendere perché gli uomini odiano le donne e perché arrivano a stuprare e uccidere.

La verità è che molti maschi sono misogini, lo sono da millenni e questa cultura è così radicata ovunque nel mondo che è tremendamente difficile da estirpare. David Gilmore, un antropologo americano che ha condotto uno studio specifico sulla misoginia, confrontando società e culture agli antipodi, racconta che i maschi Sambia, una tribù degli altopiani occidentali della Nuova Guinea, sono terrorizzati dal sangue mestruale e temono che durante il coito il mestruo e altre secrezioni vaginali possano risalire l’uretra, entrare nel loro sangue e albergare nello stomaco fino a causarne la putrefazione.

Dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, nell’emisfero settentrionale – molto prima dell’avvento di Internet, della manosphere, dei mengoingtheirway o degli incel – i maschi Yurok, nativi americani della California settentrionale, avevano pensato di relegare le donne in tende mestruali e credevano che la vagina fosse la porta attraverso la quale il caos e il male erano arrivati sulla terra.

Ugualmente, a centinaia di migliaia di chilometri di distanza, nel Mar Mediterraneo, gli antichi greci erano terrorizzati dalle sirene e da altri mostri femminili come Scilla e Cariddi, giganteschi serpenti di mare che emergevano dalle acque con bocche gigantesche e denti aguzzi.

Le antiche mitologie cinesi, indiane ed europee sono zeppe di naufraghi scaraventati sulle coste e poi torturati a morte da crudeli spiriti femminili che popolano piccole isole avvolte nella nebbia: le pericolose Isole delle Femmine.

Credo che gli esempi possano bastare. A ogni latitudine, dall’alba dei tempi molti uomini hanno paura delle donne: paura dei loro poteri, del loro corpo, della loro energia. Provano a dominarle, a controllarle e a soggiogarle, e quando non riescono a possederle come una cosa propria, perdono la ragione, l’autocontrollo e spesso ricorrono alla violenza fisica e le picchiano o le uccidono.

È questa cultura dominante del possesso il male da studiare, anche se a studiare – in verità – dovrebbero essere più che le donne gli uomini.

L'ossessione del ragno Matteo Lena

L’AUTORE E IL LIBROMatteo Lena, nato a Tortona nel 1978, vive a Roma dove lavora per la tv. Ha vinto il Premio Ilaria Alpi per il documentario Le mani su Palermo. Sue sono la sceneggiatura e la regia della docuserie Il Mostro di Udine, trasmessa per la prima volta nel 2019.

L’ossessione del ragno, il suo primo romanzo edito da Salani, racconta proprio la storia del Mostro di Udine: con una cadenza sempre più inquietante, a Udine tra il 1971 e il 1989, vengono ritrovati dieci cadaveri fuori città, ai margini dei campi. Le vittime sono tutte donne abituate a vivere la notte per strada e ad accettare passaggi in macchina da sconosciuti. Sono state accoltellate, strangolate o sgozzate. Alcuni di questi delitti sembrano la fotocopia uno dell’altro: i polsi legati dietro la schiena, uno squarcio alla gola, lunghi tagli sul ventre.

Un serial killer si aggira di notte armato di bisturi e sembra voler ripulire le strade dal vizio e dal peccato. Lo chiamano il Mostro di Udine. Gli investigatori non riescono a fermarlo, eppure i media nazionali non sembrano interessati a questa storia che presto diventa uno dei tanti cold case, destinato a essere dimenticato da tutti.

Flashforward al 2018. Nico Galici è un regista scontento. Scontento degli ultimi programmi tv ai quali ha lavorato, ma scontento soprattutto di sé, per essersi fatto contagiare dal cinismo del suo mondo. Poi un giorno riceve una telefonata: una piattaforma streaming vorrebbe capire se c’è materiale a sufficienza per produrre un documentario su questa lunga serie di femminicidi. E così Nico parte per Udine, con niente in mano se non qualche nome e alcune informazioni imprecise…

Comincia a chiedere in giro, incontra poliziotti, magistrati, i parenti delle vittime. Scopre errori, nuove prove, strane omissioni. E mentre con ostinazione, mese dopo mese, ricostruisce la lunga scia di sangue che per vent’anni ha macchiato la provincia di Udine, si rende conto che quella storia non è più soltanto un lavoro: è un’occasione per cercare, proprio nell’abisso della violenza più brutale, quel bagliore di umanità che tutti, lui compreso, sembrano aver perso.

Dopo essersi occupato di questo caso come autore e regista di una docuserie, Lena ci torna sopra con gli strumenti del romanziere, scavando nell’animo umano, senza sconti, fino alle radici di quel Male che porta un uomo a uccidere una donna e a tante, troppe persone a voltarsi dall’altra parte.

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