“Il volto del male” è il nuovo libro di Stefano Nazzi, l’autore del podcast “Indagini”. IlLibraio.it ha intervistato il giornalista del Post, che ha riformulato la narrazione della cronaca nera e giudiziaria in Italia. Nella sua carriera ha attraversato diverse forme di narrazione, dai periodici alla stampa digitale, affinando uno stile preciso, che ha contribuito ad affermarne il suo successo: “Cerco sempre di usare le parole che hanno quel significato, e non parole prestate a quel significato. Non uso termini che il lettore non possa capire… la cronaca nera è stata sempre giudicata come una sorta di giornalismo di serie b. Purtroppo, un certo tipo di televisione, a cui si è adattata poi anche la stampa, ha raccontato la cronaca tramite la spettacolarizzazione, con un attaccamento morboso alle vicende…”

Si chiama Stefano Nazzi, fa il giornalista da tanti anni, e nel corso della sua carriera si è occupato di molte storie che ci sono diventate familiari e di altre di cui spesso non abbiamo sentito parlare. Storie di cronaca, cronaca nera e giudiziaria.

Indagini è il podcast che cura per Il Post e Il volto del male (Mondadori) è il suo nuovo libro.

Lo stile di Nazzi è inconfondibile: la precisione, la pulizia e la sobrietà con cui analizza e racconta le storie, ne hanno fatto un caso nel panorama dei podcast italiani di area true crime. Il suo lavoro di ricostruzione, l’attenzione alle parole e alle vicende, si rispecchiano nei dieci casi scelti per ricostruire Il volto del male.

Il volto del male

ilLibraio.it ne ha parlato con l’autore in un’intervista telefonica.

Nazzi, da dove viene il titolo del suo libro?
“Questo libro racconta dieci storie di persone che hanno fatto del male, hanno fatto del male ad altre persone, anche in maniera estrema, uccidendole. Sono state, in quel momento, loro stesse il male”.

E qual è il volto del male?
“Quello che ho voluto fare non è tanto andare a cercare l’origine del male. Sarebbe stata un’impresa impossibile, al di sopra delle mie capacità. Ho voluto raccontare come il male si manifesta. Sono tutte storie diverse l’una dall’altra, con protagonisti molto differenti. Il volto del male cambia di volta in volta, con un solo denominatore comune”.

Quale?
“Quello di considerare la vita altrui meno importante dei propri interessi”.

Che cosa succede dopo, a chi quel male lo ha commesso?
“C’è chi commette il male in un momento, dura magari un minuto, poi il resto della sua vita la passa nel tentativo di cambiare, di redimersi. C’è chi ha fatto il male e magari, dopo venticinque anni in carcere, è uscito e l’ha fatto di nuovo. Come se non sapesse fare altro. C’è chi lo commette e poi si comporta come se non fosse accaduto niente. C’è chi dice io sono diventato la persona che sono perché ho commesso quell’atto, che non vuol dire grazie a quell’atto ma, dopo quello che ho fatto, sono riuscito a diventare una persona migliore. Tutto cambia da persona a persona”.

Nella sua carriera ha attraversato diverse forme di scrittura e diversi ambienti. Come si è evoluta nel tempo la sua scrittura, com’è stato passare dalla carta stampata (e quindi dai periodici) ai podcast, fino alla scrittura del libro?
“La mia scrittura è cambiata molto, ci sono voluti anni per arrivare a quello che è oggi. Nei giornali in cui ho lavorato ho imparato come si scriveva, ma anche come non si scriveva. Ho imparato come non volevo più scrivere. Quindi ho abbandonato, man mano che andavo avanti con gli anni, tutta una serie di linguaggi, di espressioni, di aggettivazioni, di frasi fatte, che adesso mi viene abbastanza naturale tralasciare”.

Quanto sono importanti, allora, le parole?
“Cerco sempre di usare le parole che hanno quel significato, e non parole prestate a quel significato. Non uso termini che il lettore non possa capire. Questo nella cronaca, soprattutto giudiziaria, avviene spessissimo. Si buttano lì frasi come incidente probatorio o rito abbreviato senza spiegare cosa significhino. Questa disattenzione spesso genera fraintendimenti. Io cerco di spiegare quello che scrivo, lì dove è necessario, rischiando di essere noioso, ma lo faccio sempre”.

C’è un mezzo che trova più efficace per la sua narrazione?
“Penso che qualsiasi mezzo sia giusto, sia utile, basta saper raccontare le cose, basta raccontarle con onestà, con rispetto per tutti. Il podcast, come format, in questo momento aiuta e funziona perché riesce a catturare l’attenzione”.

Il podcast ha delle regole che Indagini ha sovvertito. Il successo poteva non essere scontato. Come si spiega la grande attenzione per questa narrazione?
“La cronaca nera è stata sempre giudicata come una sorta di giornalismo di serie b. Purtroppo, un certo tipo di televisione, a cui si è adattata poi anche la stampa, ha raccontato la cronaca tramite la spettacolarizzazione, con un attaccamento morboso alle vicende. Il mio tentativo, con Indagini, è stato quello di capire se c’erano persone che avevano voglia di ascoltare la cronaca senza quella spettacolarizzazione. Togliendo tutto ciò che non serve, eliminando gli aggettivi inutili, quelli che stuzzicano solo l’emotività”.

E cosa rimane, allora?
“Le emozioni ci sono, non potrebbero non esserci quando si parla di storie di questo genere; però non c’è bisogno di cavalcarle, di esaltarle, perché sono già lì. Credo che ci sia gente che ha voglia di questo, di un racconto pulito, più sobrio”.

Quindi questa percezione della cronaca come giornalismo di serie b a cosa è dovuta?
“Credo sia dovuta a quell’esaltazione, perché se andiamo indietro nel tempo grandissimi giornalisti si sono occupati di cronaca, penso ad esempio a Giorgio Bocca, in un passato meno lontano Pino Corrias, negli Stati Uniti Truman Capote”.

E poi cos’è successo?
“Poi la cronaca ha assunto per scelte editoriali un aspetto molto più sensazionalistico. Certe trasmissioni televisive si trasformano a volte in tribunali improvvisati, in cui manca la precisione di un’analisi attenta. Si prendono cantonate clamorose”.

Cosa vorrebbe restasse ai lettori dei casi che racconta?
“Mi farebbe piacere lasciare l’idea precisa delle cose che sono realmente avvenute. Dare la possibilità di conoscerle senza preconcetti. Senza che qualcuno abbia espresso per loro dei giudizi. Io provo a raccontare le cose, le metto in ordine, e ognuno si fa la sua idea”.

Cosa le ha lasciato, invece, lo studio di questi casi?
“Mi ha lasciato l’idea che il male si può manifestare anche in persone di cui non te l’aspetti. La consapevolezza che non sempre c’è un legame con una patologia psichiatrica. A volte è proprio insito nel volere dell’uomo. E poi la stupidità del male, l’ho notato in molti casi. Come si può pensare di fare certe cose e farla franca? È una delle cose che mi è rimasta”.

A proposito, c’è un caso di cronaca nera di cui non vorrebbe mai parlare?
“I casi che riguardano i bambini sono complessi. È difficile riuscire a mantenere quella sobrietà senza ferire la sensibilità di chi poi ti ascolta o ti legge, perché ci sono sensibilità molto variegate. E poi ci sono dei casi talmente complessi, come ad esempio il mostro di Firenze, che prima o poi vorrò affrontare in un podcast, che sembrano delle imprese colossali. Perché poi il podcast deve riuscire a fare una sintesi, deve ripulire tutto e tenere ciò che è essenziale, ma per alcuni casi è veramente complicato”.

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