“Mai stati innocenti”, il primo romanzo di Valeria Gargiullo, è una cruda storia di periferia ambientata a Civitavecchia, tra i casermoni popolari di Campo dell’oro. L’autrice si racconta su ilLibraio.it: “Quello che so per certo è che la scrittura, l’amore per lo studio, per la letteratura, mi ha portato a essere viva e non morta…”

Ho vissuto a Campo dell’oro da quando ho memoria. Ho avuto una veloce incursione in un paesino della provincia di Monza Brianza: il periodo più bello della mia vita. Credevo di essermi salvata dalla miseria che aveva cercato di prendermi. Ma i soldi non bastavano mai, arrancavamo sul bordo per non cadere nella fossa. Siamo dovuti tornare all’inferno. Come la fine di un sogno bellissimo, in un freddo giorno di novembre mi sono svegliata. Ricordo le ossa doloranti, la mia vita stipata dentro il camion dei traslochi, il gatto nel trasportino che miagolava impazzito. Ho dovuto lasciare i miei amici, il fidanzato di allora, la scuola che mi aveva trasmesso l’amore per la letteratura. Non lo sapevo ancora, ma sarebbe stato quell’amore a salvarmi. Mentre l’autostrada scorreva diabolica verso Civitavecchia, leggevo il Paradiso di Dante con le lacrime conficcate in gola come spilli.

Ho cominciato a leggere i classici. Passavo i pomeriggi dopo scuola distesa sul letto, il naso infilato tra le pagine di un libro, respiravo l’odore della carta e dell’inchiostro e non impazzivo. Cercavo gli amici tra le penne di Austen e le sorelle Brontë, certe volte la mia reclusione era simile a quella di Jane, la mia non era una stanza rossa, ma spoglia di mobili, ricca solo di libri e riproduzioni di Van Gogh sul muro. Mi ritrovavo in Albert Camus, sottolineavo le pagine de Lo Straniero come se mi leggesse dentro, ero anch’io un’estranea, mi affacciavo alla finestra della cameretta e guardavo con una strana apatia la strada dove i ragazzini passavano la loro adolescenza seduti sui marciapiedi a rubacchiare e sognare il cielo oltre i casermoni. Volevo fuggire, però ero prigioniera della mia terra. Provavo ad andarmene, per un anno avevo ritrovato Milano e la sua abnegazione, avevo incominciato a studiare all’università, ma i problemi economici tornavano ghignando, mi tagliavano le gambe. Fallivo, piangevo nel letto della mia vecchia cameretta, mio fratello provava a starmi accanto ma lo allontanavo, ascoltavo Nessun dorma riprodotta da Pavarotti e pensavo: ci sarà anche per me l’alba.

Forse è stato in una di quelle notti in cui riproducevo La Moldava di Smetana a ripetizione o mi lasciavo sedurre da Fabrizio De André che ho ricevuto la consapevolezza. Ho volutamente scritto ricevuta e non maturata perché sono convinta che la presa di coscienza è stata un fardello, l’ennesima beffa a discapito di chi sta già sanguinando all’interno. L’essere consapevoli può essere una condanna, molte volte ho desiderato ignorare, voltare le spalle – chi non sa non soffre, si dice così. È stato il quartiere stesso a sbattermela in faccia, questa consapevolezza. Vedi, tu vuoi andartene, sembrava che mi dicesse nella notte. Ma tu sei mia. Non volevo darlo a vedere, però provavo rabbia, fame inappagabile, lo sdegno per me stessa è stata una conseguenza naturale.

Fu allora che ho cominciato a odiare. L’odio per il quartiere ha allargato la ferita. Non mi sentivo protetta dal luogo che mi aveva messa al mondo. Il processo di scrittura è stato essenziale per rinascere, debellare la tentazione di cedere all’odio. Il dolore ha provato a trasformarmi in una persona diversa, in un’egoista, bugiarda, in una frustrata. La scrittura ha permesso di liberarmi o perlomeno esorcizzare la morte viva di Campo dell’oro, per spiegare meglio questo concetto, prendo in prestito le parole straordinarie di Gesualdo Bufalino: “Vi sono suicidi invisibili. Si rimane in vita per pura diplomazia, si beve, si mangia, si cammina. Gli altri ci cascano sempre, ma noi sappiamo, con un riso interno, che si sbagliano, che siamo morti”. Al quartiere si mangia, si vive, si respira eppure si è morti: quante volte ho visto persone inversamente abili prese di mira dai bulli e nessun adulto obiettare, farsi avanti; ragazzine palpeggiate, violentate verbalmente in pieno giorno dai teppisti del momento e i genitori ne ignoravano la loro dignità, lasciandole a se stesse; cornicioni che cadevano sulla strada dove bambini dell’età di mia nipote avevano giocato lì sotto un attimo prima.

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Io volevo vivere davvero. Avevo fame di vita.

Quello che so per certo è che la scrittura, l’amore per lo studio, per la letteratura, mi ha portato a essere viva e non morta. Perché se non riempio la pagina bianca sono niente, non esisto, e allora io voglio esistere, voglio occupare questo spazio, voglio meritarmelo, per dare una voce a chi invece non ce l’ha o non sa di averla. Per continuare a essere, a vivere, mi concederò sempre a un libro. Perché come dicono gli U2 in Magnificent, “Only love can heal such a scar”. Io ci credo. Solo l’amore può lenire una tale cicatrice e le storie degli altri sono la migliore medicina per guarire una ferita come la mia.

L’AUTRICE E IL LIBRO – Uno stradone di un chilometro divide Civitavecchia a metà: da una parte Santa Fermina, con le sue villette a due piani e le vie coi nomi dei fiori; dall’altra Campo dell’oro, i casermoni popolari e i fumi degli impianti industriali che corrodono l’anima delle persone. Di là, un futuro prospero, le bollette in regola, le vacanze al mare; di qua, le famiglie arrancano e i figli, abbandonati a loro stessi, sognano una fuga impossibile. È quello che fa anche Anna, che ha studiato duramente e messo i soldi da parte per potersene andare via, lontano, all’università. Tutto però sembra andare in frantumi quando vede il suo fratellino di quattordici anni, in sella a un motorino, con un martello in mano, insieme alla banda criminale che controlla la zona…

A raccontare questa storia di periferia è Valeria Gargiullo, classe ’92, nel suo primo romanzo, Mai stati innocenti, in uscita per Salani. L’autrice, all’esordio, proviene da un quartiere popolare di Civitavecchia e cerca nella scrittura una forma di riscatto. Ha frequentato il Master in Tecniche della Narrazione della scuola Palomar. Attualmente vive a Roma, dove studia Lettere.

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