“Nei festival le autrici italiane sono quasi sempre intervistatrici o moderatrici, figure di spalla al servizio di un altro ospite…”. Dopo l’intervento dell’editore Luigi Spagnol, dal titolo “Maschilismo e letteratura, cosa ci perdiamo noi uomini?”, su ilLibraio.it ospitiamo il contributo di Michela Murgia, che si sofferma sulla sottorappresentazione del pensiero delle donne nei media e negli spazi culturali

La scrittrice cita (e smonta) le risposte che ha ricevuto dagli organizzatori dei festival o dai direttori di pagine e palinsesti (“che nove volte su dieci sono maschi”) a cui ha fatto notare questo problema, e argomenta: “Le donne non sono una sottocategoria socioculturale, ma più della metà del genere umano…” – Il suo intervento

Dopo l’intervento dell’editore Luigi Spagnol dal titolo “Maschilismo e letteratura, cosa ci perdiamo noi uomini?”, ospitiamo il contributo alla discussione della scrittrice Michela Murgia:

 

Qualche giorno fa, durante la trasmissione Quante Storie dove ho una piccola rubrica quotidiana, Corrado Augias mi ha chiesto perché parlassi soprattutto di libri scritti da donne, una curiosità che certamente sarà venuta anche a più di un telespettatore. La risposta forse avrebbe dovuto essere “perché sono belli”, ma ho preferito chiedergli a mia volta perché lui parlasse quasi sempre di libri scritti da uomini. L’assurdità della mia domanda ha messo in luce un fatto evidente: che a parlare di tutto per tutti siano sempre gli uomini è normale e nessuno lo trova strano, ma una sequenza di pensieri formulati da donne sembra invece così straordinaria che la sua stessa evenienza va spiegata.

La ragione di questa sorpresa è da cercare nella sottorappresentazione del pensiero delle donne nei media e negli spazi culturali, la cui presenza raramente supera il 10% e in molti casi è persino inferiore.

Questo dato è perfettamente estensibile anche ai festival, ai contributi d’opinione sui giornali, ai premi letterari e di conseguenza alle classifiche. È interessante anche notare come sia composto quel 10% di presenze: a meno che non si tratti di nomi stranieri di fama internazionale (Zadie Smith, Jhumpa Lahiri, Vandana Shiva, Sophie Kinsella et similia), le autrici italiane sono quasi sempre intervistatrici o moderatrici, figure di spalla al servizio di un altro ospite. Se l’ospite principale sono loro, in genere è perché sono considerate esperte di tematiche percepite come legate al mondo femminile (femminicidio, femminismi, maternità…), oppure sono portatrici di storie personali sul filo del caso umano.

Io e pochissimi altri nomi di donne italiane costituiamo un’eccezione e questo, oltre a confermare la regola, mi solleva dal sospetto di agire per frustrazione personale: semplicemente credo che la scomparsa di metà del genere umano dagli spazi di riflessione e autorevolezza intellettuale sia un problema che riguarda tutti, perché tutti ne escono impoveriti.

Quando chiedo il motivo di questa sottorappresentazione femminile agli organizzatori dei festival o ai direttori di pagine e palinsesti (che nove volte su dieci sono maschi) le risposte sono piuttosto omogenee. Ne ho selezionato alcune e ho provato a smontarle.

Non è vero che ci sono poche donne.

Per smontare questa obiezione basterebbe aprire il folder di un programma culturale a caso e contare, oppure leggersi la bellissima disamina fatta da Luigi Spagnol in merito alla considerazione riservata alla produzione femminile nell’editoria. Resta però interessante il fatto che la prima reazione sia quasi sempre una negazione dell’evidenza: la maggior parte degli organizzatori di eventi culturali non si accorge che le donne non ci sono o sono pochissime. Il fatto che l’assenza delle donne dalle programmazioni non sia percepita come un deficit di programmazione è la parte principale del problema.

Non è importante quante donne ci sono, contano le idee e non chi le porta.

Se confronto questa affermazione con i numeri, sono costretta a pensare che la maggioranza degli operatori culturali sia davvero convinta che le idee in questo paese ce le abbiano soprattutto i maschi. Del resto, se fosse vero che contano le idee, i festival costruiti intorno a un’alta presenza di donne non sarebbero considerati festival femminili o di letteratura femminile. Pensare che gli uomini possano parlare per tutti mentre le donne solo per le donne è un pregiudizio di genere.

Non credo sia giusto invitare le donne solo in quanto donne.

Ovviamente nessuna donna vuole essere inserita in un programma culturale solo in quanto donna. Ciascuna di loro pensa legittimamente di avere qualcosa di interessante da dire e che questa cosa non valga meno di quella che ha da dire un uomo. Quando però nove volte su dieci a dire quella cosa viene chiamato un uomo, la statistica diventa sospetto: o gli uomini sono più bravi a dire le cose, o chi organizza ne è convinto. Anche questo è un pregiudizio di genere.

Ma se ragioniamo per categorie, allora dovremmo mettere anche le quote gay, le quote stranieri, le quote per tutto.

C’è un errore di fondo in questo ragionamento: le donne non sono una sottocategoria socioculturale, ma più della metà del genere umano, comprese quelle che sono lesbiche o straniere. Il fatto che si pensi alle donne come a una variante minoritaria della normalità percepita è il cuore stesso del sessismo, per il quale il femminile è un’eccezione e rappresenta se stesso, mentre il maschile è la norma e rappresenta tutti. Per questa ragione un festival di sole donne viene considerato un festival di categoria, perché l’assenza delle voci maschili salta subito all’occhio come un vulnus. Non sembra porre lo stesso problema il fatto che sia pieno di programmazioni dove la presenza delle donne è minima o irrilevante.

Non ci sono nomi di donne prestigiosi e autorevoli come quelli degli uomini.

L’assunto sarebbe vero solo se il prestigio fosse un dato di natura. Invece due terzi delle rilevanze maschili e dei prestigi virili sono stati costruiti nel tempo attraverso decine di occasioni di visibilità che alle donne non sono state offerte. L’autorevolezza ti viene riconosciuta, non te la dai da sola: non deriva solo da quanto è interessante quello che dici, ma soprattutto dalla possibilità che quello che dici possa influenzare molte persone. Per questo invitare solo uomini a esprimere il proprio pensiero è un modo per consolidare il pregiudizio che gli unici pensieri prestigiosi siano quelli maschili.

Sapessi quanti rifiuti di donne ho ricevuto!

Questa è una scusa, e pure banale. Ho collaborato e collaboro con diversi festival e i rifiuti arrivano da ambo le parti. Solo che quando a rifiutare è un uomo se ne cerca un altro senza troppe storie e nessuno pensa che a rifiutarsi con lui sia un intero genere. Invece le ragioni personali che ciascuna può avere per dire di no a un invito diventano subito l’alibi per supporre che le donne rifiutino in quanto tali, e quindi non invitarne più.

Le donne sono di meno nello scenario culturale, è normale che siano di meno anche nelle programmazioni.

È falso: le donne competenti che scrivono, pensano, studiano e che interverrebbero non sono meno degli uomini. Sono però molte meno nei luoghi del potere culturale, quello dove si sceglie a chi attribuire gli spazi di parola pubblica. La loro rilevanza e visibilità dipende da quanto si accorge di loro chi controlla i processi di riconoscimento e legittimazione. Per farle vedere agli altri devi prima vederle tu, quindi le domande sono: quanti romanzi di donne leggi? Quante saggiste leggi? Di quante giornaliste, intellettuali, docenti e operatrici culturali a vario titolo conosci il lavoro? Di quante ti ricordi quando fai progettazione?

Nel mio programma/palinsesto/pagina ci sono poche donne perché la qualità del lavoro culturale delle donne è minore.

Credo che gli uomini che sono in grado di verbalizzare questo pensiero abbiano raggiunto un traguardo importante: riconoscere che esiste una discriminazione nel loro modo di giudicare il lavoro intellettuale delle donne. Il problema comincia da lì in poi: anziché attribuire la colpa di questa discriminazione al loro maschilismo, la attribuiscono alle donne stesse; il che è un po’ come dire: “non sono io che sono razzista, sono loro che sono negri”.

Correre appresso alle quote rosa è faticoso, si perde un sacco di tempo e io di tempo ne ho poco.

Caro amico organizzatore, direttore di rete, di giornale o di rassegna, è ovvio che si perde tempo se prima si fa un programma o una pagina o un palinsesto al maschile e solo dopo ci si chiedere “oddio, quante donne ho messo?” Pensare di attribuire uno spazio di espressione e di potere a un maschio è più facile e immediato, ma ti svelo un segreto: è proprio per questo che si chiama maschilismo. Puoi anche essere colto, di sinistra, laico e benpensante, ma è probabile che ancora tu non abbia capito che considerare le donne come un genere socialmente recessivo è il cuore stesso della discriminazione di genere. Gli ospiti femminili probabilmente per te non rispondono a un’urgenza di rappresentazione del pensiero, ma solo di rappresentazione di sé in quanto donne. Questa idea, anziché un valore, te le renderà un fastidioso pedaggio da pagare al politicamente corretto. Se poi per far posto alle integrazioni femminili dovrai togliere qualche nome maschile che stimi, è normale che questo te le farà percepire come occupanti abusive di spazi pensati per altri. Non è strano che progettare eventi culturali in questo modo ti sembri faticoso, ma la colpa non è dell’esistenza delle donne: è nell’esistenza del maschilismo. Se è faticoso per te vincerlo, ovvero costringerti a ricordare che le persone di sesso femminile esistono e fanno pensiero, immagina quanto può essere faticoso per le donne combattere costantemente contro i tentativi di essere cancellate dagli spazi dove quel pensiero può essere espresso.

È solo un problema maschile? In gran parte sì, ma non solo. Non c’è bisogno di essere maschi per essere maschilisti; ho visto molte donne agire con lo stesso filtro e io stessa devo costantemente vigilare contro la tentazione di abbassare la guardia verso la cultura sessista che agisce mio malgrado anche in me. Però, poiché quella cultura la riconosco e voglio superarla, negli anni è finita che mi sono data un metodo. Non è complicato e una volta che ti ci abitui agisce come un automatismo. Io le donne capaci me le segno. Se apro pagine di giornale le cerco. Se seguo un programma televisivo, radiofonico o festivaliero mi domando dove sono. Se compro libri, mi assicuro che ci siano abbastanza titoli scritti da donne. Se mi piacciono mi appunto i loro nomi. Quando le incontro, raccolgo i loro contatti. Quando devo indicare dei nomi le vado a ricercare. Ne scrivo in tutti gli spazi che ho a disposizione, perché i loro nomi siano segnati da altri e altre. A parità di competenze scelgo sempre una donna, perché con lei viaggia anche l’idea che “competenza” e “donna” siano due parole che insieme stanno bene. Alla fine di questo processo di solito succede una cosa che ha dello straordinario: l’idea che le donne possano essere intelligenti, scrivere bene, parlare in pubblico con autorità e insegnare qualcosa a tutti non sembra più così strana e faticosa. Incredibile, vero?


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