In “Fervore” Emanuele Tonon racconta l’anno del suo noviziato in un convento francescano di Renacavata, nel centro Italia. Sono i dodici mesi della “prova”, in cui si veste il saio e ci si prepara a emettere i voti… – Su ilLibraio.it alcuni estratti

Ogni risveglio è un venire al mondo: violenza dello strappo, stordimento, gloria di incontrare ciò che è vivo. Di albe così il protagonista e narratore di Fervore (Mondadori), nuovo libro di Emanuele Tonon (che ha esordito con Il nemico – Isbn edizioni, 2009 – e che ha poi pubblicato La luce prima I circuiti celesti, un memoir dedicato a Marco Simoncelli, per 66thand2nd), ne ha davanti tante, tutte quelle che compongono l’anno del suo noviziato nel convento francescano di Renacavata, nel centro Italia. Sono i dodici mesi della “prova”, in cui si veste il saio e ci si prepara a emettere i voti: un tempo assorto, di isolamento, lavoro manuale, preghiera. Giornate in cui l’esperienza interiore – estatica a volte, a volte annichilente – si amplifica fino a invadere lo spazio della realtà concreta, sottoponendola a una reinterpretazione radicale.

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Il protagonista senza nome approda qui appena ventenne, infiammato da un bisogno di senso e appartenenza, deciso a rifiutare un destino omologato, disgustato dalla sensazione di essere una tra milioni di “vacche che sconoscevano la morte, che non conoscevano i ganci cui sarebbero finite appese”. Nella dimensione protetta del convento, pallida ma funzionale riproduzione del giardino edenico, i criteri che reggono il mondo fuori non tengono, si capovolgono: le crisi epilettiche di uno dei compagni sono un ascensore per le sfere celesti, le vipere acquattate nelle sterpaglie ambiscono a iniettare veleno nei teneri polpacci dei novizi per custodirne l’innocenza, preservandoli dalla contaminazione del vivere.

Le ore trascorrono nella solitudine della cella, l’alambicco in cui leggere, scrivere, sognare unioni mistiche e carnali; in comunione coi compagni, nel canto, durante i pasti, nelle riunioni intorno al fuoco; e nel lavoro: zappare la terra, raccoglierne i frutti, alternarsi nella pulizia degli spazi comuni. In una “riproposizione della giullaresca vita del santo di cui avevamo preso a seguire le orme: non l’agonizzante stratega stimmatizzato, funzionale alla Chiesa e al potere, ma il giullare pazzo che per poco tempo aveva potuto essere Francesco”.

Su ilLibraio.it alcuni estratti dal libro
(per gentile concessione dell’editore)

E ogni mattina era come la prima alba sorta sull’imperfetta sfera fumante. Erano i nostri occhi a costruire la materia del mondo, a dare vita ai segni degli umani che hanno l’ardire di radicare la storia. Aprivi gli occhi che faceva ancora tenebra, li spalancavi sul nero del soffitto e prendevi a strofinarli. Il fosfene ti ingannava facendoti vedere figure angeliche svolazzanti. Ti veniva quasi da sputare piume. Accendevi la luce e il bagliore della lampadina ti accecava.

Era così piccola la tua cella che ti saresti potuto fare male anche solo inciampando appena alzato dal letto, ché avevi la parete alla destra del giaciglio a mezzo metro dalla scesa. Calzavi i sandali e i piedi ti facevano male, avevi i talloni ispessiti dai calli, d’inverno ti si spaccava quella dura crosta e ci stendevi sopra qualche goccia d’olio d’oliva, a lenimento. Aprivi la finestra e la distesa di ciliegi prendeva luce, ad intermittenza, dalle lampadine che ardevano nelle celle. Intanto qualche crepa cominciava ad aprirsi nella calotta nera che opprimeva ancora tutta la creazione.

L’aria fresca o gelida ti percuoteva il volto, obbligandoti al necessario ricongiungimento col mondo emerso. La visione arborea ti portava dalla terra alle altezze abitate dagli uccelli e dai serafini.

***

Andavamo al posto assegnatoci nel Coro. Aprivamo il breviario. Il Padre Guardiano principiava la Liturgia delle Ore, dicendo: «Signore apri le mie labbra» e noi, in corale risposta: «E la mia bocca proclami la tua lode». Segnandoci col segno della croce cominciavamo ad accordare la mente con la voce. Dopo l’Ufficio delle letture stavamo per mezz’ora in meditazione silenziosa. Vicini, eppure ognuno a percorrere in solitaria le assi del palcoscenico della propria mente. Dopo quel tempo di silenzio, rotto solo dal gorgoglio dello stomaco, da colpi di tosse, da sbadigli soffocati, era la volta delle Lodi mattutine, quel canto di lode che risuona eternamente nelle sedi celesti e che noi facevamo riecheggiare nella terra del nostro esilio. Laggiù, nel Giardino, ci era dato solo il canto per uscire da noi mentre stavamo insieme, ammassati nella preghiera e nel rito. E cantavamo così rapiti da non sentire il peso della carne, della condanna creaturale che, muta, abitava i nostri nervi destinati a cedere. Il canto ci usciva di bocca e andava a lambire le pietre, si faceva nuvola d’incenso in combustione. Ci rincorrevamo nell’aria colle nostre voci, coi nostri squittii; cantavamo in un responsorio, di giorno e di notte, così dimentichi della nostra carne da diventare uccelli in volo sognati dagli alberi, cervi in corsa sognati dalla terra, delfini in guizzo sognati dall’acqua.

***

La Chiesa, nostra madre, aveva scritto per noi il sontuoso copione che devotamente portavamo in scena, giorno dopo giorno. Attraversavamo l’anno liturgico memori della Pentecoste, di quelle lingue di fuoco scese sugli apostoli a farli parlare in lingue sconosciute, a spingerli, tramortiti dalle ustioni cerebrali che avevano scatenato nella loro mente la molecola della beatitudine, ad annunciare la Gioia. Facevamo memoria nel tempo in attesa della Parusia, della consumazione del tempo. Portavamo in scena la memoria di una salvezza già avvenuta, ma eravamo tesi agli ultimi tempi: aspettavamo il giorno in cui avremmo abbandonato alla terra il nostro corpo per vederlo, il nostro Dio immaginato, faccia a faccia. E quando accendemmo il fuoco epifanico, nella antica cava di rena che ci faceva da culla, da acquario dove noi si poteva nuotare come all’origine, noi caduti nel tempo, noi creati per non avere conoscenza del tempo, per aborrire la morte, noi creati solo per una narrazione, per una saga che aveva necessità di parola, per un teatro cosmico che abbisognava di figure sceniche, di burattini adorabili; e quando accendemmo il fuoco epifanico nella cava, scottandoci le dita, rischiando l’avvampare della barba che cominciava a crescere, ci ammassammo nella cava, in cerchio, all’alta fiamma, e in quel cupo bagliore ci rivelammo gli uni agli altri, così prossimi alla fusione, all’indistinto, all’origine, alla luce che vibrava fendenti al nero del fondale, a volerlo perforare, a volerlo squarciare, a cercare di sfondare la caduta nel male, a cercare di aprire il varco per quella dimensione che stava, dormiente, nel nostro cervello; e il crepitare della legna andava ad ardere quella noce dimezzata protetta da una calotta di osso, e la nostra mente creava, rappresentava il mondo mentre ci abbracciavamo nel fervore e nel calore del sangue irrorato dal vino della festa. Ci guardavamo attraverso le fiamme, disposti in cerchio, mente ricordavamo la manifestazione prima del Dio che ci era capitato di adorare per geografia e per destino. Ci guardavamo, attraversando con lo sguardo il fuoco. E noi, quando le nostre bocche si aprivano al canto, eravamo altro fuoco, un anello di fuoco a chiudere il nucleo della pira che simboleggiava il nostro Dio pesce che guizzava tra le fiamme, che solcava il cielo nero come un capodoglio gravido di olio da lucerna. Quell’olio che poi usciva a spruzzo come un respiro gioioso, a impregnare e poi incendiare tutta la creazione che ancora geme e soffre in attesa della rivelazione dei figli di Dio. Noi eravamo la definitiva promessa della fine dell’attesa. Invece le potenze dell’aria, quelle che combattevano contro il vento dossologico, mandarono tempesta sul nostro innocente fervore. Spensero quel cerchio di fuoco, disseminarono ai quattro venti i tizzoni del fuoco epifanico, ci buttarono cenere negli occhi relegandoci nella cecità e nella confusione.

(continua in libreria…)

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