Nel suo misterioso romanzo d’esordio “La bambina falena”, Luca Bortolotti propone una rilettura delle fiabe dei fratelli Grimm, interpretate da una voce narrante ironica e malinconica: la protagonista, una misteriosa bambina venuta dal mare, guida il lettore alla scoperta di una storia dove fantasia e coraggio sono la stessa cosa, un’arma per sconfiggere le proprie paure… – Su ilLibraio.it un estratto

Quando, in un giorno d’aprile, sulla spiaggia di San Michele Arcangelo spunta una bambina che sembra essere stata recapitata dalle onde del mare, nessuno sa come sia possibile: la piccola deve avere all’incirca tre o quattro anni, è bagnata fradicia e miracolosamente non è affogata, ma dei suoi genitori non c’è traccia. Vengono mobilitati elicotteri e sommozzatori, ma dei genitori neanche l’ombra. La bambina, a sua volta, non sa spiegare cosa le sia successo e non riesce a pronunciare correttamente il suo nome; Glete, dice. Viene chiamata Greta.

È una storia affascinante quella di Greta: misteriosa, nel suo avere origine da un punto imprecisato nel tempo e nello spazio, per poi essere accolta in casa da Alfredo, “vitale e brutto come un pesce siluro”, e dalla moglie Vittoria, che muore poco dopo, lasciando la bambina con il suo nuovo papà. Nel tempo, Greta cresce, studia, lascia gli studi, lavora, ma non riesce a lasciarsi alle spalle il mistero delle sue origini, un segreto che rimane ignoto a lei stessa e che non riesce a levarsi di dosso, proprio come quella piccola anomalia del suo DNA, la sindrome di Ehlers-Danlos, che sembra messa lì apposta per ricordarle che lei è diversa.

Un giorno, Greta decide di tornare indietro nel tempo e nello spazio, in quel punto dove è comparsa per la prima volta, sulla spiaggia, per cercare di capire il mistero della sua venuta al mondo; inaspettatamente, si ritrova davanti a una casetta nel bosco che sembra emersa dalle fiabe dei fratelli Grimm.

La bambina falena Luca Bortolotti Fandango copertina

La ragazza falena (Fandango) è il romanzo d’esordio di Luca Bertolotti, milanese, classe ’77, operaio specializzato nel settore del mobile. L’autore, che vive in Brianza, dimostra una scrittura priva di incertezze. Nel rielaborare alcuni classici per l’infanzia, la sua prosa è caratterizzata da una voce narrante ironica, con qualche venatura di malinconia.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto dal romanzo:

Mi ammalai il 10 settembre. Il giorno dopo avevo la febbre alta. Per caso accesi la tv e vidi i due aerei di linea infilarsi nelle Twin Towers. Registrai una VHS intera da centottanta minuti di telegiornali e speciali in seconda serata, ma alla fine non riuscii a mantenere le distanze e a non vederci chissà quale metafora o allegoria personale. Un po’ come quei paranoici che interpretano un goal, la visita del Papa o un’inondazione come fossero propaggini delle proprie frustrazioni o dei propri desideri. Era una faccenda mia, un messaggio tanto potente quanto difficile da decrittare, anche se non ce n’era veramente bisogno. La mia pelle si stava sciogliendo come l’involucro di acciaio, cemento e vetro di quelle torri con lo scheletro di cartapesta. Ogni tanto, sgocciolante dal naso, gli occhi infossati nella testa e rossi come piaghe, mi fermavo per qualche minuto davanti alla tv. Riavvolsi il nastro per l’ennesima volta. Uno degli uomini che si era lanciato nel vuoto forse aveva una cravatta che sventolava nell’aria tersa a duecento metri dal suolo. Possibile che non ce ne fosse nemmeno uno in grado di battere la forza di gravità? Io crollai sul divano con le ossa che cominciano a dolermi e mi misi a piangere.

Di solito la vibrazione comincia dalle fondamenta, dai piedi, e poi risale lungo il bacino fino al petto e alle spalle e, quando giunge al collo, finalmente si rovescia lungo i polsi, seguendo la teoria dei vasi comunicanti. È allora che il dolore mi sommerge e penetra così a fondo che non sono solo le cartilagini e le giunture a vibrare, ma anche quelle ossa su cui ho sempre fatto affidamento. Analgesici e antidolorifici servono a poco, perché il dolore non è acuto, ma è omnidirezionale come i bassi di un amplificatore.

Rimasi a casa per una settimana intera. Benché i dolori alle articolazioni fossero scesi a forza cinque il giorno successivo, la febbre aveva continuato a bombardarmi a intermittenza per almeno altri tre.

Mia zia si fece viva il terzo o il quarto giorno, portando con sé una pirofila di lasagne. Mi disse di starmene comoda, di non lamentarmi, di non discutere. Quindi si infilò un paio di guanti di gomma e pulì da cima a fondo il bagno e la cucina, scavando tra le minuzie lasciate in disordine da settimane.

“O mioddio, anche questo…”, continuava a ripetere, la voce abbastanza alta perché penetrasse da dietro la porta appena socchiusa della mia camera.

Subito dopo aver finito, venne a sedersi sul bordo del letto.

“Fammi vedere se hai le placche.”

Quindi mi strinse la mandibola in una morsa che non lasciava scampo. Mi fece dire ahhh, poi prese un cucchiaino che spuntava da una tazza di tè il cui zucchero sul fondo era tornato a cristallizzarsi da tempo e lo utilizzò per abbassarmi la lingua.

“Grazie zia.”

“Perché non mi hai chiamata?”

“È solo un po’ di influenza.”

Poi fece quello che avevo temuto fin dal primo momento in cui aveva messo piede in camera da letto. Alzò la tapparella. Aprì anche la finestra. Rimasi non so per quanto tempo con le mani premute sugli occhi.

“Zia, devo andarmene per qualche giorno”, le dissi.

“Dove?”

“Devo andare in Liguria.”

“O signùr, Greta. Lo sai a che delusioni vanno incontro tutti quelli che vogliono guardare indietro…”

Diventano statue di sale, zia.

Ovvio che non le risposi così. Volevo essere più accomodante. Soprattutto non avevo intenzione di andarmene, chissà perché, senza la sua benedizione, anche se data magari a malincuore.

“C’è solo quella spiaggia. Lo so.”

“Quanto starai via?” Mia zia sembrava già rassegnata.

Avrei voluto chiederle perché non lottava per farmi desistere, ma ormai la faccenda si era messa in moto, quasi senza che l’avessi premeditata. Non ci avevo assolutamente pensato in tutti quei giorni di febbre e dolori e, ora che forse cominciavo a guarire, eccola lì, quest’idea campata per aria, come un’espettorazione da chiudere in un fazzoletto.

“Parto, dopodomani.”

“Venerdì, quindi. Ma non sarai ancora a posto, Greta. Rischi una ricaduta.”

“Allora faccio sabato e domenica. Vedo quello che c’è da vedere, mi metto il cuore in pace e lunedì sono di nuovo al lavoro. E poi”, dissi anticipandola, “mi porto il cellulare, giuro. E giuro pure che non lo lascerò spento come faccio di solito.”

Non partii subito, invece. Aspettai ancora un bel po’ di giorni. Tirai fino a inizio novembre. Cosa aspettavo, non so. Forse il mio desiderio era prendere un treno totalmente vuoto, perché, immaginavo, con il brutto tempo nessuno si sarebbe messo in viaggio verso il mare. Ecco, un viaggio in solitaria, come se le rotaie fossero state posate solo per me. Come se le locomotive traboccassero di nafta o carica elettrica solo per me. Come se i bigliettai aspettassero solo i miei soldi.

Insomma, davanti a quel mare, pensavo io, ci starò davanti, in piedi, da sola. Un mare tutto per me.

Invece mi sbagliavo.

(Continua in libreria…)

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