“Non avevo deciso in partenza che questo libro dovesse prendere la forma di un diario. È capitato. Forse perché era estate e lo stillicidio di una stagione che sembra esistere per finire mi ha fatto sentire particolarmente fraterna la malinconia di Flaiano”. Su ilLibraio.it due estratti da “Diario di un’estate marziana” di Tommaso Pincio, scrittore e traduttore

Tommaso Pincio (pseudonimo di Marco Colapietro), scrittore e traduttore (Kerouac, Dick, Fitzgerald, Updike, Orwell, Stoker e altri), ha pubblicato numerosi libri, tra cui Un amore dell’altro mondo (Einaudi, 2002), Lo spazio sfinito (Minimum fax, 2010) e Panorama (NN editore, 2015).

Ora arriva in libreria per Giulio Perrone Editore Diario di un’estate marziana, che l’autore presenta così: “Non avevo deciso in partenza che questo libro dovesse prendere la forma di un diario. È capitato. Forse perché era estate e lo stillicidio di una stagione che sembra esistere per finire mi ha fatto sentire particolarmente fraterna la malinconia di Flaiano”.

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Tommaso Pincio passeggia per Roma come passeggiasse nel Novecento: un secolo che sta sempre finendo, un secolo che dura più di quanto s’era detto. Solo una città che si deteriora così infallibilmente e così pigramente concilia una serie di incontri col passato, vero e sognato; solo durante una stagione in cui i romani sono via, altrove – soprattutto sono scappati – Pincio può concedersi di posare uno sguardo sulla polvere delle cose: dei premi letterari, del cinema, della cultura ufficiale.

Senza rievocazioni macabre o psicomagiche, Ennio Flaiano accompagna Pincio per Roma, a volte qualche passo avanti, a volte rimanendo bloccato negli infiniti cantieri della Capitale: la suprema e tollerante indifferenza della città l’aveva capita bene lo scrittore abruzzese.

Il diario, dunque, di una passeggiata nel tempo: non in ordine cronologico, però, non strettamente, l’ordine è quello dei salti temporali, delle brevi sospensioni, degli appunti mentali, delle domande al passato e delle risposte immaginate. Solo d’estate, quando il traffico è in vacanza, quando gli uffici sono chiusi, a Roma è possibile arrivare fino a Villa Borghese e incontrare un marziano…

tommaso pincio diario di un'estate marziana

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo due estratti:

Una decina di anni fa mi è capitato un fatto angoscioso. Era trascorsa da poco la mezzanotte e tornavo da una cena con alcuni amici a Trastevere. Procedevo su Ponte Sisto, diretto al rione Regola. L’aria era dolce e tiepida e pregustavo il piacere di percorrere quelle strade nella quiete notturna, i profumi della nuova stagione, il silenzio spezzato da echi lontani e vicini, lo scorrere dell’acqua da una fontanella, il risuonare di un paio di tacchi sul porfido. Camminavo lento e, come spesso faccio, leggendo un libro, quando ho sentito un vociare di giovanotti eccitati che venivano dalla direzione opposta, verso di me. Non so se il sesto senso, come lo chiamano, possa definirsi un residuo di quell’istinto di sopravvivenza che l’uomo doveva certamente avere quando ancora si arrangiava nelle foreste e nelle grotte, e non era che un animale tra altri animali, fatto sta che per qualche secondo ebbi la netta impressione di fiutare un pericolo.

Riporre il libro in tasca non mi sarebbe costato nulla, ma mi comportai da uomo evoluto, razionale, e proseguii per Ponte Sisto, seguitando a leggere. L’inquietudine mi era però rimasta e non riuscivo a concentrarmi sulle parole stampate. Camminavo a testa bassa e, anche se tenevo gli occhi incollati alla pagina, cercavo di non perdere di vista i giovani. Stranamente, più si avvicinavano più le loro sagome oscure diventavano indistinte, compatte, feroci. A poco a poco iniziai a udire i loro rumori, un vociare greve, gutturale, sgradevole. Non distinguevo niente di ciò che dicevano fino a quando uno di loro gridò: Scemo. Io insistevo a camminare, a leggere. Dovevo dare l’impressione di un prete immerso in un breviario o magari l’immagine era semplicemente di un tipo strambo, uno svampito, uno scemo appunto. E difatti, poco dopo, un altro giovanotto o forse lo stesso, sempre urlando, disse: Ma cosa ti leggi, scemo? Non avevo certo bisogno di levare lo sguardo dal libro per sincerarmi che ce l’avevano con me.

Da quel momento è stato un coro, una gragnola di insulti. Io proseguivo a camminare e leggere. Avevo rallentato un po’ il passo ma non più di tanto. Sapevo come funzionano queste cose a Roma, è una guerra di nervi, di contegno: se mostri un cedimento è finita. E poi che mai avrei ottenuto rallentando? Loro incedevano baldanzosi, avrei rimandato la collisione soltanto di pochi secondi. Calcolai che ci separavano una decina di metri, ma ancora non riuscivo a capire quanti fossero. Del resto, neppure questa informazione mi sarebbe stata di qualche aiuto. Mai stato bravo a menare le mani, io. Maledissi di trovarmi su un ponte. Ci fossimo incrociati nelle strade di Trastevere avrei potuto svoltare in un vicolo o infilarmi in un bar, in un’osteria. Ma è più probabile che se ci fossimo incrociati altrove, in mezzo ad altra gente, non mi avrebbero mai tormentato. Li udivo e li guardavo, ma senza staccare gli occhi dalla mia cosa di carta, fingendo che la lettura mi avesse preso al punto da non accorgermi che gridavano a me. In sostanza, avevo scelto di adottare la tattica dell’insetto immobile, pietrificato al cospetto della minaccia, nella speranza insensata che la minaccia proseguisse per la sua strada come niente fosse. Ormai era faccenda di un paio di passi. Se uno di quei bulli non si fosse scansato, avrei dovuto fendere il gruppo e magari perfino sfiorare o urtare uno dei suoi componenti. Spostarmi il più possibile verso uno dei lati del ponte era fuori discussione: il passaggio era stretto e se qualcosa fosse andato storto, sarebbe bastata una spinta per farmi volare dal parapetto, giù nella melma lurida di un Tevere nero.

Questa opzione implicava inoltre che levassi lo sguardo, fingessi di avvedermi dell’ostacolo e deviassi quel tanto da evitarlo. Così facendo però, tanti saluti alla tattica dell’insetto: niente o nessuno avrebbe più giustificato che non udissi le urla del branco. Non avevo scelta ormai, dovevo avanzare e così feci. Naturalmente ero in preda al panico. Vedevo le pagine tremare. Levai il capo solo all’ultimo, a un passo da loro, e li guardai come se soltanto adesso mi rendessi conto di quella presenza. Scartai bruscamente su un lato e mi rituffai nel libro. Non potevo crederci. Nessuno mi aveva toccato. Volevo piangere per il sollievo, la felicità. Avanzai di una decina di passi. Per qualche secondo si udì soltanto il soffio lieve della primavera. Infine i bulli ripresero a gridare, con violenza maggiore di prima. Legge ancora, lo scemo. T’ammazziamo di botte, ti pestiamo a sangue. T’ammazziamo di botte, ti pestiamo. Ma il pericolo era scampato.

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Per chi vive di libri a Roma, luglio è il mese dello Strega e quando dico Strega non penso ovviamente alla parte letteraria del premio ma a quella mondana, alla serata sempre torrida in cui si celebra il rito finale; penso al Ninfeo di Villa Giulia affollato di tavoli e gente accaldata, al vincitore dell’anno prima che – almeno fino a qualche tempo fa –legge uno per uno i nomi dei votati; penso alla giovane donna che tiene i conti sulla lavagna.

Per un certo periodo, la Fondazione Bellonci è stata così cortese da spedirmi l’invito per la serata, poi ha smesso e lo capisco, visto che non mi sono mai degnato di andare né tantomeno di rispondere. Lo snobismo e la scarsa predisposizione alla vita mondana spiegano soltanto in parte questo comportamento. È che ormai anch’io ho un mio rito al quale mi sono affezionato, quello di partecipare all’evento da lontano ovvero da casa, dal mio divano, guardandolo in televisione. In teoria, e in effetti anche in pratica, non c’è nulla di meno telegenico dello Strega. Non c’è modo di rendere la diretta dal Ninfeo meno noiosa e fuori dal tempo agli occhi dello spettatore medio. Ma appunto questo mi piace dell’assistere alla serata del premio dal divano di casa: osservare da fuori un ambiente di cui bene o male anch’io faccio parte malgrado non lo frequenti, osservarne gli abitanti non più come miei simili ma come creature di un’altra specie, di un ecosistema diverso, pesci imprigionati in un acquario da salotto.

C’è un che di rasserenante nell’illudersi di non appartenere a una specie in estinzione solo perché ci si è confinati in uno spazio protetto ma staccato da tutto; nel capirsi inutili ma a casa propria.

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