Torna in libreria Alberto Schiavone con il suo nuovo romanzo, “Dolcissima abitudine”. Questa volta l’autore porta i lettori nella sua città natale, Torino, in un viaggio nel ‘900 – Su ilLibraio.it un estratto

Guanda ha appena portato in librerie Dolcissima abitudine, il nuovo libro di Alberto Schiavone, già autore di romanzi come La libreria dell’armadillo, Nessuna carezzaOgni spazio felice (vincitore del Premio Fiesole Narrativa Under 40 e finalista al Premio Stresa).

Nel nuovo libro, Schiavone, che è nato a Torino nel 1980 e vive e lavora a Milano, ci porta nella sua città natale, nel 2006. Piera, sessantaquattro anni, sta partecipando al funerale del suo ultimo cliente. Per gran parte della sua vita Piera Cavallero è stata Rosa, una prostituta. Ha avuto molto. Ha avuto niente. Ha avuto soldi, tanti, un piccolo impero economico insieme a una sua emancipazione personale. E ha avuto un figlio, che però non la conosce. Ma Rosa negli anni non ha mai perso di vista questo figlio. Gli è stata accanto passo dopo passo senza farglielo sapere. Ora, giunta a fine carriera, sente che è arrivato il momento di chiudere i conti con il passato. Un passato che ripercorriamo dai primi anni Cinquanta, quando nella Torino in espansione del dopoguerra Rosa inizia il mestiere in casa con la madre, che le ha trasmesso la professione appena adolescente. Seguiamo le sue vicende e la sua caparbia evoluzione. Gli uomini incontrati, le cadute, la solitudine rotta dai pochi amici e dai clienti che l’hanno accompagnata. La storia di Rosa, ispirata a figure e ambienti reali, si mischia con la storia del Novecento fino ad arrivare ai giorni nostri, insieme alla necessità di trovare una difficile pace.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo del libro:

3

Torino, marzo 1969

Piazza Vittorio guarda alla Gran Madre, con la sua corona di collina abitata. Da lì si osserva la città come dopo un nubifragio, e tocca contare i danni. Viene sempre malinconia a guardare Torino da lassù, e più in alto ancora. C’è un errore che non si scorge, per troppa presunzione, o amore, o cecità di morte. Il momento in cui si trova l’errore, ce ne accorgiamo, significa la fine di noi.

Chi Torino la comprende placida non ne conosce il vocabolario. Può esserci noia, ma anche lì non è di tranquillità il magma che gorgoglia. Piuttosto una dannazione sussurrata.

Torino ha tanto verde, parchi, giardini e viali alberati. Ma è grigia, si sente grigia e non vuole impegnarsi troppo per smentire lo stereotipo.

Si scorge sempre il cielo. È opportunità di preghiera, di gioia o bestemmia.

Guardando rispettosi alla lucida folle impresa che è la Mole Antonelliana.

Non è placida la città, nel 1969. Sonni agitati, denti che digrignano. Bestemmie più di sorrisi. E un rancore che in questi anni inizia a sedimentarsi come un asfalto corrotto che prima o poi dovrà essere sanato con estrema fatica.

In città si registra circa un suicidio al giorno, tendente verso i due. Per gli assassini esiste la maschera della comprensione.

«Sembrava tanto una brava persona.»

Per i suicidi l’onta di non avercela fatta, e un accanimento pigro e becero, con la paura di ritrovarsi simile.

«Era stanco della vita.»

«Il ragazzo da tempo era inquieto, torbido, triste.»

A Torino pare che non si sia avuto il tempo di partecipare in maniera gioiosa al ’68, quasi che il sentimento generale fosse rivolto già a quello che sarebbe arrivato dopo.

Come se gli anni Settanta e Ottanta chiamassero alla maniera delle sirene, succhiando lucidità alle teste.

Eppure è a Torino che succedono per prime le vicende d’Italia. Quelle grandi, quelle piccole.

Rosa e Gibbo stanno camminando verso l’automobile.

Lui indossa pantaloni a zampa, stivaletti marroni a punta, una canottiera blu e sopra un pellicciotto di orsetto. Occhiali da sole, sta fumando e non ha troppe parole da chiedere a lei. Che cammina piano e dolorante. Addosso una tuta da ginnastica di felpa, una roba che si vergogna a guardarsi allo specchio e spera l’auto sia vicina per chiudercisi dentro al più presto. Sopra la tuta un giaccone. Sotto, un pannolino.

Gibbo è appena andato a riprenderla in corso Unione Sovietica, dove per venticinquemila lire l’hanno fatta abortire in una struttura abusiva.

«Allora?»

«Che cosa.»

«Come è andata?»

«Una passeggiata. Hanno tolto via tutto.»

«Come?»

«Tutto. Aveva la mano pesante quella bagascia. Meglio, così non ci penso più.»

Lui è indeciso.

«Significa che non potrai più avere figli?»

«Perché, ti era per caso venuta voglia?»

Gibbo la squadra, infastidito dalla durezza e da quella sciatteria.

«Accompagnami in farmacia, che mi hanno segnato delle cose da comprare.»

«Quanto devi stare ferma?»

«Che ti venga un colpo, lasciami almeno qualche giorno per rimettermi in quadro.»

«Non ti arrabbiare, biondissima.»

«Vuoi che i clienti si spaventino? Qua sotto ho un inferno, vuoi guardare?»

Compie il gesto di abbassarsi i pantaloni della tuta. Lui la ferma.

Entrano in auto, presto il fumo riempie l’abitacolo e Rosa spalanca il finestrino.

«Mi intossichi.»

La Fiat 124 Sport romba e si inserisce nel traffico. Gibbo aspira ancora un po’ la sigaretta e la butta fuori dal finestrino.

Non parlano.

(continua in libreria…)

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