“La signora Meraviglia” segna il debutto narrativo di Saba Anglana, cantante, attrice, doppiatrice e conduttrice radiofonica italiana di origine somala. Il racconto di un percorso frustrante alla ricerca della tanto agognata signora Meraviglia – ossia la cittadinanza italiana – che si rivela decisivo per comprendere la natura del turbamento che, da nonna Abebech fino a Saba stessa, ha infestato le protagoniste di questa storia. Quella ferita originaria, quel bisogno insoddisfatto di identità e di appartenenza che, in fondo, “infesta” ogni famiglia – Su ilLibraio.it un estratto

Abebech è in fuga, è poco più di una bambina, e corre disperata mentre un ascaro somalo la insegue: è il 1938, in Etiopia infuria la guerra coloniale, e Abebech viene rapita, sradicata dalla sua terra e lasciata sola in Somalia, con una figlia e un vuoto incolmabile dentro di sé. Seguendo il presagio di uno strano indovino, Abebech giunge a Mogadiscio, dove conosce il suo futuro marito, Worku. E lì, finalmente, con i loro figli sembra quasi possibile una parvenza di felicità.

Almeno fino a quando Abebech non inizia a mostrare i segni di una inquietante possessione. Soltanto una donna sa come affrontare lo spirito: è Wosero Dinqnesh, la signora Meraviglia, depositaria di un sapere centenario…

Questa la prima linea narrativa di La signora Meraviglia (Sellerio), debutto di Saba Anglana, cantante, attrice, doppiatrice e conduttrice radiofonica italiana di origine somala.

Parallelamente a questi eventi, nel 2015, la ribelle zia Dighei sta cercando di ottenere la cittadinanza. Vive in Italia da quarant’anni insieme al resto della famiglia, e sua nipote Saba la sta aiutando a muoversi tra i gangli della burocrazia, in una Roma faticosa e contraddittoria: dipendenti comunali confusi, documenti impossibili da reperire, barriere di ogni tipo.

E questo percorso frustrante alla ricerca della tanto agognata signora Meraviglia – ossia la cittadinanza italiana – si rivela decisivo per comprendere la natura del turbamento che, da nonna Abebech fino a Saba stessa, ha infestato tutte loro. Quella ferita originaria, quel bisogno insoddisfatto di identità e di appartenenza che in fondo infesta ogni famiglia.

Saba Anglana, nata a Mogadiscio nel 1970, scrive un romanzo di violenta verità e un memoir nelle cui pagine che ci si muove tra il presente e la Storia: il dolore viene condiviso senza vergogna, la violenza del passato si può disinnescare, tramutandola in una energia inattesa.

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La signora Meraviglia Saba Anglana

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Nella porzione di terra racchiusa tra il corso del Giuba e dell’Uebi Scebeli, Abebech giaceva con la febbre altissima, delirante, dentro una modesta capanna. Sola, abbandonata dall’uomo e dalla famiglia di lui, che mai aveva accettato la presenza di quella ragazza diversa e per giunta rubata: niente più che un bottino di guerra che, dopo due anni, nemmeno parlava bene la loro lingua. Abebech aveva perfino imparato ad amare Alì, il suo rapitore. Amare come dipendere. Amare come temere. Amare come sopportare. Lontano da casa, quello straniero era tutto ciò che si era portata dietro. Un bagaglio alieno dal corpo asciutto che si sollevava e si abbassava nella luce ogni mattino, quando il sole si intrufolava attraverso le fessure del muro sconnesso attorno alla porta di legno. Abebech abbandonava la testa verso l’uscio, si concentrava sulla cornice luminosa e lo lasciava fare, immaginando di uscire dal varco. Lui si vestiva poi con cura, si calava il tarbūsh sulla testa, tenendo il rummay sempre in bocca per pulirsi i denti. Masticava la radice anche durante il tragitto che lo portava al campo degli italiani, sputando qua e là sulla strada una poltiglia verde di fibra e saliva. Ogni giorno lo vedeva allontanarsi oltre la porta che faceva entrare il sole di quella terra sconosciuta. Fino alla sera in cui non tornò più. Abebech non si lamentava, era forte come un’adulta, nonostante l’infezione arrivata con il secondo figlio. Lui aveva da sempre provato un certo fastidio per quella resistenza esibita senza clamori, il silenzio con cui la piccola donna sopportava il dolore per la mastite era una specie di offesa. Si massaggiava i capezzoli ulcerati, la straniera, premendoli per far uscire un poco di nutrimento per il piccolo. Come osava quella ragazzina? Dopo tutto quello che aveva fatto per lei? Abebech non immaginava che il silenzio fosse la sua arma più forte, che la dignità con cui affrontava tutto lontana dalla sua famiglia fosse un fastidio per la coscienza di quell’uomo che sputava radici. Così Alì se ne andò.

Era sempre più debole per l’infezione, mentre il pianto del suo piccolo Omar si faceva inconsolabile. Il neonato aveva la carnagione di un bruno chiaro, come lei, una rada peluria sulla testolina, ma attorno agli occhi una fioritura fitta di piccole ciglia sempre bagnate. Sulle dita, le falangi più scure tradivano le sue origini, quelle piccole mani chiare erano di una creatura nata da un’etiope e da un somalo, si sarebbero scurite crescendo, se solo Dio l’avesse voluto. Ma il latte non usciva, le mammelle erano capaci solo di un siero sanguinolento che il piccolo aveva disperatamente provato a succhiare. Ogni stretta delle minuscole gengive sui capezzoli procurava ad Abebech dolori lancinanti. La febbre non diminuiva e il fuoco che le faceva scottare le tempie passò anche alla creatura che le dormiva con la testolina nell’incavo del collo. Si sforzò di cantare, per calmare il suo Omar. Ma non uscivano parole dalla bocca asciutta come un deserto di sale, le labbra le si aprivano appena. La ninnananna le rimaneva incastrata nella gola, e tuttavia dal collo la voce vibrava e, per contatto, come un leggero massaggio, dava un poco di sollievo al bambino. Stretti nel nodo di febbre avevano entrambi la testa rivolta verso la cornice di luce attorno alla porta. Omar teneva premuto l’orecchio sulla melodia muta come se potesse mangiare da lì. E Abebech teneva costanti le deboli note nella gola, il piccolo non avrebbe capito la differenza tra canto e lamento. Vedeva sua figlia Maryam giocare a terra con la bambola di fango e paglia che Alì aveva portato in casa come un trofeo. Bibi, l’avevano chiamata. Poco importava che quello fosse l’unico regalo mai ricevuto. Si ricordò che quel giorno, dopo averlo atteso invano tutta la notte, aveva sentito un tonfo al cuore nel vederlo arrivare al mattino con quell’oggetto in mano che sapeva di felicità e di anice. Chissà dove l’aveva trovato. Almeno Maryam era impegnata con Bibi mentre suo fratello moriva.

Abebech non seppe mai chi portò via il suo Omar. Pianse allo sfinimento mentre ancora combatteva, sudata e tremante, fino a quando la febbre la abbandonò. Fu in quel momento, esausta, che avvertì l’aria addensarsi su di lei e il buio uscire da ogni angolo della capanna, dalle canne del tetto, dai vasi di terracotta accanto all’uscio, dai buchi nel muro scrostato. Tutto il fumo invisibile della notte che dorme negli oggetti divenne il peso di una mano che le spingeva il collo verso il basso. Con la testa piegata poteva scorgere solo il lembo bianco della veste in cui era avvolta la sagoma davanti a lei. Durò pochi secondi. E poi di nuovo lacrime, come l’ultima spremitura dell’anima. Pronunciò la prima preghiera che le venne in mente, una di quelle che aveva imparato nella piccola chiesa copta di Asebe Teferi. Lentamente, al ritmo di quelle parole, il buio tornò negli angoli in cui era nascosto, la figura svanì e Abebech risollevò la testa da quella che le parve un’allucinazione. Le venne da dire «ishī», sì, va bene.

Si buttò giù dal letto, trascinandosi verso il fuoco per poter cuocere per Maryam un po’ di farina di sorgo. Le rimaneva solo lei, la sua prima figlia. Erano simili, le due piccole sopravvissute. Anche la sua bambina aveva il contorno delle labbra disegnato da un tratto più scuro, un recinto dei sorrisi, dei pianti, delle parole. Crescendo, continuò a portare nei tratti del volto le tracce di sua madre, ma la somiglianza fisica non fu mai sufficiente a trasformare quell’appartenenza reciproca in qualcosa di più dello sforzo dell’accettazione. Maryam era il fardello che Abebech portava costantemente con una fascia sulla schiena, insieme a Bibi.

Allacciate l’una all’altra, resistettero per mesi a una lunga crisi di siccità. Se, dopo duri periodi di carestia, la terra si faceva finalmente un po’ verde era segno che in Etiopia aveva piovuto molto: il Giuba arrivava in Somalia gonfio d’acqua e si poteva tornare a respirare. Forse, così, ripensava al luogo da cui lei stessa proveniva. Lì, oltre il confine, c’era l’origine che la teneva ancora in vita.

(C) Sellerio editore, 2024 – pubblicato in accordo con Grandi & Associati.

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Saba Anglana, nella foto di Valeria Fioranti

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