“Chi legge il mio libro, Tangerinn, dà per scontato che sia la mia storia, che i pensieri della protagonista siano i miei pensieri. Vogliono l’intimità, l’immediatezza che l’autofiction sa dare in modo così pulito, dove il romanzo è invece una faccenda vischiosa. Capisco la tentazione: faccio anch’io parte di quel pubblico di lettori-spettatori che sembrano cibarsi di storie vere con una fame particolare, ma…”. In occasione dell’uscita del suo primo romanzo, Emanuela Anechoum si racconta su ilLibraio.it

C’è un aneddoto divertente che mio padre racconta spesso, di una sera in cui era solo a Roma, molti anni fa, e venne seguito da due uomini marocchini che, parlando tra loro, si stavano mettendo d’accordo per derubarlo. Lui aveva aspettato un po’, poi si era girato e, sempre in marocchino, aveva detto: ‘Chi volete fregare?’ I due erano scoppiati a ridere e avevano esclamato una cosa tipo: ‘Fratello! Vestito così sembri un italiano’.

Per anni ho raccontato questa stessa storia, ma quando la raccontavo io suonava così: eravamo a Napoli, io, mio padre e mia sorella, e stavamo camminando mano nella mano con mio padre al centro. Mio padre aveva sentito i due ceffi parlottare in marocchino, e ci aveva detto: ‘al mio tre correte più veloce che potete: uno, due, tre…’ e poi si era girato ad affrontare il pericolo mentre io e mia sorella facevamo a gara a chi correva più veloce. È una di quelle storie che piacciono a tutti, perché tengono in equilibrio vari punti fermi sui quali la gente ama essere rassicurata: i marocchini sono per lo più un po’ delinquenti, però alcuni sono pure buoni; mio padre è più italiano che marocchino; il cameratismo di chi viene dallo stesso posto e quindi si capisce al volo.

Se ci penso ricordo tutto di quella scena: il cuore che mi batte in gola, i ciottoli della via stretta, il lampione alla fine della strada che emanava una luce molto gialla, e poi girarmi e vedere mio padre che abbracciava i due uomini, più bassi di lui. Questo ricordo che ho è vero, nel senso che me lo ricordo veramente, ma è anche falso, perché chiaramente non è successo. A un certo punto, negli anni, avevo deciso che quel ricordo doveva essere mio, e me ne ero appropriata. Ho scoperto solo recentemente che non era affatto così, che lì io non c’ero. Non ci sono rimasta male: non mi importa granché della realtà delle cose.

Chi legge il mio libro, Tangerinn, dà per scontato che sia la mia storia, che i pensieri della protagonista siano i miei pensieri. Vogliono l’intimità, l’immediatezza che l’autofiction sa dare in modo così pulito, dove il romanzo è invece una faccenda vischiosa. Capisco la tentazione: faccio anch’io parte di quel pubblico di lettori-spettatori che sembrano cibarsi di storie vere con una fame particolare. Ho letto e amato Rachel Cusk, Sheila Heti, Annie Ernaux, Susan Sontag, Deborah Levy, ma anche Claudia Durastanti, Olivia Laing. Le ho trovate coraggiose perché la presunzione di parlare di sé in quanto donna è un atto politico – ma per lo più ho trovato consolatorio assistere a una confessione che non era la mia, comodo rifugiarmi nelle altrui verità, circoscritte e codificabili, quando il romanzo è oscuro e tremante quanto oscura e tremante sono io che leggo. Ero così a mio agio con queste donne che ho sentito il bisogno di conoscerle: ho letto le loro interviste e ascoltato la loro voce in questo o quel podcast, e ho visto le loro foto e persino le loro case. Più delle loro parole mi interessa il loro corpo, gli abiti e le maschere, il loro modo di vivere la vita e poi di scriverla; mi interessa l’illusione di poter ricevere le loro confidenze, verificarne la veridicità, e capirle, e forse, imitarle. Mi affascinano perché io al contrario sono troppo pavida per essere l’oggetto della mia scrittura: se provassi davvero a scrivere di me non farei che mentire.

Ho già parlato di mio padre e della mia famiglia, in un pezzo scritto per Vice Italia, qualche anno fa – e lì avevo scritto tutto ciò che credo ci fosse da dire sull’argomento. La mia famiglia non è particolarmente interessante – è uguale e diversa a tutte le altre nelle sue felicità e infelicità. Sono stata molto privilegiata, mentre mio padre lo è stato molto poco. È nella distanza tra il mio privilegio e il suo che ho cercato di intrufolarmi alla ricerca di una storia da raccontare, una storia che fosse lontana dalla mia abbastanza da pormi qualche domanda, ad esempio: chi sarei stata se non fossi nata nella sicurezza di una famiglia borghese, nell’illusione che l’impegno è sempre premiato, semplicemente perché in vita mia non ho mai dovuto rinunciare a nulla.

Così è nata Mina, che non ha un sogno, che non si è mai appassionata a niente, e vaga sulla terra alla ricerca di una personalità più forte dietro cui nascondersi. È antipatica e respingente, affascinata dall’apparenza; stringe amicizie più per bisogno che per affinità, rifugge il terrore e la speranza di essere amata. È manipolativa e arrabbiata, tutte cose che non mi permetterei mai di essere.

Mina mi ha liberata da molti impicci, e nasconde i limiti della mia immaginazione. Cammina con indifferenza su quella linea sottile tra l’invenzione e l’autoanalisi, la finzione e il realismo, e se ogni tanto cade da un lato o dall’altro, di certo arriva dove io non avrei mai osato mettere piede: esibisce le sue brutture, le superficialità e i limiti, e contemporaneamente riesce a dar voce a un giovane musulmano cresciuto nella periferia di Casablanca, suo padre – sobbarcandosi senza troppi scrupoli l’esperienza di camminare sulla terra come un uomo, immaginando cosa possa voler dire avere fede in un dio, e sentire di avere un destino, tutte cose di cui né io né lei abbiamo esperienza. Mina pretende di immedesimarsi in suo padre senza lasciarsi intimidire dal filtro eurocentrico del suo sguardo. Fa questo e allo stesso tempo apostrofa sua sorella Aisha con commenti discutibili sul velo e sull’Islam, e non si rende conto che l’ambizione che vede in suo padre è forse quella che lei non ha mai osato avere. Chi come me ama la purezza di un punto di vista consapevole troverà qui un’ingannevolezza capricciosa e frustrante: Mina non si conosce affatto, quindi niente di ciò che dice e pensa può essere classificato come vero o falso. Vive nell’incertezza e nella contraddizione, morale ed emotiva: è mista in ogni accezione del termine, ed è ambivalente come io non sono mai stata. Nella consapevolezza che il mero atto di scrivere è conseguenza del mio privilegio, Mina è il mio monito: e se.

Tutto il resto è come la storia di papà e dei due marocchini: una bugia detta con sincerità.

Tangerinn di Emanuela Anechoum

L’AUTRICE E IL ROMANZOEmanuela Anechoum è nata a Reggio Calabria nel 1991 e vive a Roma. Dopo gli studi ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria a Londra, e successivamente si è trasferita in Italia. Ha scritto per Vice, Doppiozero, Marvin Rivista.

Tangerinn, in uscita il 24 gennaio e/o, è il suo primo libro, definito dalla stessa stessa casa editrice (per cui l’autrice lavora) “il romanzo di una generazione che sa di dover partire ignorando la destinazione”.

La trama vede una giovane donna, Mina, viaggiare tra la grande metropoli, il paesello d’origine sul mare, e il Marocco fantastico di un padre adorato ma sfuggente. La ragazza ha trent’anni e conduce a Londra una vita costruita con grande attenzione e poca spontaneità, nel tentativo spasmodico di sentirsi finalmente “giusta”…

Una sera riceve una telefonata da sua madre: il padre è morto. Mina torna a casa per i funerali, ma finisce per restare a lungo. Casa è la periferia di un paese sul mare in cui suo padre gestiva un piccolo bar sulla spiaggia frequentato per lo più da immigrati. Omar aveva cercato con quel bar di creare un luogo di comunità per tutti coloro che non si sentivano accolti da quella nuova terra.

In quello strano luogo dove nessuno sembra essere al suo posto, dove le persone troppo spesso appaiono come fantasmi che passano e svaniscono, Mina ritrova la famiglia, gli amici e soprattutto i ricordi del padre, questo mitico, inafferrabile, eterno migrante con un misterioso passato in Marocco.

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Fotografia header: Emanuela Anechoum, nella foto di Dario Nicoletti

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