In libreria “Multipli forti – Voci dalla letteratura italiana contemporanea”, l’antologia che raccoglie le riflessioni delle autrici e degli autori che hanno preso parte al festival tenutosi a New York dal 6 all’8 giugno 2022. Un’analisi d’autore su grandi temi, che spaziano dal ragionamento sui destini collettivi attraverso un filtro personale al modo in cui l’italiano si è progressivamente aperto a influssi stranieri e internazionali – Su ilLibraio.it il racconto di Claudia Durastanti

Dal 6 all’8 giugno 2022, l’Istituto italiano di cultura a New York ha organizzato Multipli forti, un festival (promosso dall’Istituto di Cultura Italiano di New York diretto da Fabio Finotti con la collaborazione della Fuis e la direzione artistica di Maria Ida Gaeta) che intendeva aprire una finestra sulle maggiori tendenze della narrativa italiana del nostro tempo, raccontate con contributi originali dalle autrici e dagli autori che l’hanno scritta e la stanno scrivendo.

Multipli forti. Voci della letteratura italiana contemporanea

Ad alcuni tra i maggiori scrittori italiani contemporanei è stato chiesto di ragionare su grandi temi che spaziano dalla riflessione sui destini collettivi attraverso un filtro personale al modo in cui lo specifico italiano si è progressivamente aperto a influssi stranieri e internazionali; dal corpo a corpo con la realtà alla sopravvivenza di un’idea classica del romanzo; dalle nuove forme dell’autofiction al genio dei luoghi e alle tradizioni vernacolari. I contributi individuali, che hanno assunto la forma di brevi racconti, memorie e meditazioni letterarie, interventi di taglio saggistico e persino, in alcuni casi, rivelatorie confessioni, costruiscono un quadro complesso e affascinante: un’occasione preziosa per riflettere sulle molte possibili direzioni che la narrativa italiana sta seguendo, in un perenne e fertile confronto tra tradizione e innovazione, realismo e invenzione pura, idiosincrasie e senso della storia.

Il risultato è un’antologia, Multipli forti – Voci dalla letteratura italiana contemporanea, in libreria per minimum fax, che raccoglie testi di autrici e autori come: Edoardo Albinati, Jonathan Bazzi, Teresa Ciabatti, Donatella Di Pietrantonio, Claudia Durastanti, Alain Elkann, Arianna Farinelli, Vincenzo Latronico, Valerio Magrelli, Francesco Pacifico, Lorenza Pieri, Elisabetta Rasy, Enrico Rotelli, Walter Siti, Nadia Terranova, Emanuele Trevi, Chiara Valerio e Sandro Veronesi.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice e dell’autrice, proponiamo uno dei brani

Un sé che si possa usare:
una conquista, una perdita

di Claudia Durastanti

Un tempo credevo che la mia scrittura avvenisse per stanze. Non stanze fisiche, ma stanze nella mia testa, con una specifica disposizione di temi: la stanza della nostalgia, la stanza del senso del tempo, la stanza dell’America, la stanza della giovinezza, la stanza per la famiglia, la stanza per il margine, i desideri, le dipendenze. Io ci camminavo in mezzo, le attraversavo, e raccoglievo il necessario per modellare una storia. La mia scrittura era radicata in questo spazio specifico: misurabile, vissuto, familiare e contenuto. Sicuro. Nella casa della scrittura, tuttavia, c’è anche una stanza segreta, e io ho trascorso molto tempo a evitarla: è la stanza del sé e dell’Io, delle storie personali e delle non fiction infinite. Ci spiavo dentro di tanto in tanto, ma resistevo alla sua gravità, temendone l’appiccicume e la voracità, la brama. Non avrei permesso che qualsiasi sé inventato che potessi avere venisse divorato da tutti i sé che avevo avuto. Ed ero molto consapevole che se mai avessi attraversato quella soglia, avrei fatto meglio ad avere una strategia per tornare indietro e uscirne. Una volta dentro, qualcosa sarebbe cambiato per sempre nella mia scrittura – l’Io può essere intossicante e ispirare una delirante perdita di confini estetici e formali – ma uno può scendere dentro di sé con un piano. E il mio piano era trovare uno spazio alternativo, una specie di scantinato in una casa di stanze tutte al primo piano, che potesse fare da sala giochi; un livello sotterraneo non illuminato benissimo dove le situazioni sanno essere spaventose e magiche allo stesso tempo; una terra di misteri ed epifanie. Ma non volevo trasferirmi nello scantinato: volevo passarci il tempo necessario per sentirmi un po’ stordita e fuori dalla realtà, e tornare in superficie con il senso di una conquista non detta, sottaciuta.

Quando si stabiliscono le gerarchie e le modalità del sé nello spettro della fiction e non-fiction, esistono molte possibilità. Come il romanzo in sé, anche la literary non-fiction ha tanti generi al suo interno, anche se finiamo col contare sempre sugli stessi.

Il codice dell’autofiction, quello più popolare, non funzionava per me, in quanto l’autofiction richiede un vecchio trucco, quasi novecentesco: per smantellare, riassemblare, rinominare e giocare con se stessi in forma di personaggio, è previsto un senso acquisito e più o meno stabile del soggetto di partenza, come se fosse un luogo riconoscibile in cui poi giocare a nascondino. C’è una monumentalità dell’Io nella premessa dell’autofiction, a prescindere dal volere e dal desiderio dell’autore di frantumarla e spaccarla, che mi risultava profondamente straniera. L’iconico «Mi chiamo Walter Siti, come tutti» in Troppi paradisi parte da una fede molto specifica nella nominabilità, è dichiarativo. Nella casa stregata della scrittura, l’autofiction è la stanza degli specchi. Ma da autrice non avevo alcun interesse a trasmutare qualcosa che pareva trasmutato di suo; sarebbe stato come partire per una battuta di caccia alla ricerca perenne di costanti, ricorrenze e modelli dentro l’Io da trasformare in personaggio, che mi pareva profondamente elusiva. E un personaggio così lasco non avrebbe neanche funzionato: fissare un fantasma in una stanza degli specchi deve procurare un mal di testa indicibile. Come tradurre una lingua che nessuno capisce, soprattutto chi la sta parlando, facendo finta di dominarla.

L’autobiografia, d’altra parte, pare richiedere un sé «utilizzabile» o servibile che presuppone una conoscibilità simile, e una fede nella genealogia. Joan Didion e Don DeLillo insistono sempre sullo «Scrivo per capire cosa penso», e gran parte delle autobiografie e dei memoir partono da una premessa parallela: «Scrivo per capire chi sono», il che non mi è mai sembrato un buon punto di partenza per una storia che reputo buona. Eppure, ogni volta che qualcuno usa l’«Io», apertamente o meno, romanzescamente o meno, il testo appare automaticamente monumentale e imperiale. Trasuda un senso di conquista, una rivendicazione che persiste e aleggia anche nelle prime persone più piatte e meno convincenti in cui ci imbattiamo sulla pagina.

Ogni volta che raccontiamo una storia su noi stessi nelle nostre interazioni quotidiane e non letterarie, scegliamo un genere: alcune persone si raccontano come se fossero poesie, altre come polizieschi, ma per gran parte delle persone i romanzi sono l’opzione più accessibile, insieme ai melodrammi e alle tragedie. Alcune persone si raccontano come se fossero miti, fissando le scene e il paesaggio con quella miscellanea peculiare di appaganti tratti universali, e altri ricorrono veramente all’autofiction: «Questo è successo a qualcuno che conosco (qualcuno che sarei io)». Ma raramente incontriamo persone che si raccontano come se fossero dei memoir o delle autobiografie orali: c’è un’esitazione, un’autoconsapevolezza che spacca la voce, un timore della nudità e una brama di qualcosa di più, dello strato protettivo della finzione. Quella nudità sembra possibile solo nella scrittura, ed è per questo che l’Io e la ricerca del sé utilizzabile appaiono come conquiste, come il mettere piede in un inland empire di possibilità allettanti.

È il momento in cui la casa della scrittura può diventare un parco divertimenti se uno si lascia andare, e va alla ricerca di attrazioni di tipo diverso. Nel mio «scantinato» convertito in luna park, non sono andata alla ricerca della stanza degli specchi (l’autofiction) o della casa stregata (il memoir) ma ho puntato direttamente alla navicella spaziale: ero interessata alla perdita di gravità, come quelle attrazioni in cui grazie alla forza centrifuga ti sollevi dal pavimento, ti si staccano i piedi da terra e continui a girare e a girare finché non perdi il senso di qualsiasi dimensione. Nell’usare il sé, ero attratta da questa perdita più di quanto potessi essere attratta da qualsiasi conquista: alcuni autori e alcune autrici finiscono davvero per contemplare il proprio passato come se fosse la ricostruzione dell’Egitto o di qualche tempio antico, una bellissima rovina che vuole essere svelata al mondo.

Le navicelle spaziali invece sono un luogo di interferenze, di glitch, impressioni falsate e meraviglia capaci di evitare quell’idea di appartenenza e sradicamento che condiziona tantissime narrazioni del sé rispetto ai luoghi. Lì si è fuori dalla storia e dalla geografia, e conta solo la luce: quella che l’Io emana sugli altri, o su di sé, finché un’oscurità più grande avanza.

La fantascienza è piena di resoconti su viaggi sbagliati o finiti male, in cui si impazzisce o si finisce per fluttuare in qualche zona parallela, ed è per questo che concepisco la scrittura in prima persona come qualcosa da maneggiare con delicatezza: c’è il serio rischio di non saper tornare indietro, e di schiacciarsi sulla prima dimensione, la più importante, che misura tutto il resto: famiglia, storia, politica, amanti, città, ecologie. Alcuni scrittori e scrittrici di questa «prima dimensione» estremamente capaci di gestirla, come Annie Ernaux, sanno essere straordinariamente impositivi e violenti, soprattutto quando scrivono nella prima persona plurale, ma c’è un conforto nel leggere le loro storie, perché in questo processo riaffermano un senso di importanza, trattengono, e sanno conquistare il sé attraverso una perdita apparente: è impossibile non vedere Ernaux lassù nella cosmogonia di sé stessa; è impossibile non voler essere con lei, o essere lei.

È l’ammirazione che proviamo per qualsiasi donna o uomo in viaggio per la Luna o per Marte: qualcosa che si può fare, ma richiede certe caratteristiche. Innanzitutto, credere che la Luna sei tu.

La domanda, tuttavia, resta sempre la stessa: che succede una volta che torni a Terra?

(continua in libreria…)

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