In libreria “La fuga”, antologia di racconti young adult pensata e curata dai ragazzi di “Qualcunoconcuicorrere”, che raccoglie le firme di nove autori considerati per adulti (da Violetta Bellocchio a Giusi Marchetta) – Su ilLibraio.it, proponiamo “Un sistema chiuso” di Claudia Durastanti

I ragazzi di Qualcunoconcuicorrere – gruppo di lettura e blog di narrativa young adult – hanno scelto nove fra i loro autori preferiti non considerati per ragazzi e hanno lanciato loro una sfida: scrivete un racconto per noi. Il tema: la fuga.

LA_FUGA_copertina

Tutti ci sentiamo in fuga“, spiegano i ragazzi, “da qualcosa che vogliamo lasciarci alle spalle o verso qualcosa che vogliamo diventare. A partire dalla lettura dei racconti vogliamo innescare una riflessione condivisa”.

È un tema che si può declinare in mille modi, ma in cui tutti i ragazzi si sono riconosciuti, perché racchiude molte delle emozioni che si trovano a vivere: l’adolescenza è l’età delle scelte, del distacco da un prima e della corsa verso un dopo che allo stesso tempo seduce e spaventa.

Ne è venuta fuori un’antologia per ragazzi, pensata e curata dai ragazzi, che raccoglie nove racconti firmati da nove penne diverse: Fabio Geda, Violetta Bellocchio, Marco Magnone, Claudia Durastanti, Cristiano Cavina, Lorenza Ghinelli, Paolo Di Paolo, Stefania Bertola e Giusi Marchetta.

In occasione dell’uscita del libro, saranno organizzate due presentazioni: una a Bookcity sabato 17 novembre presso il Castello Sforzesco, l’altra a Roma a Più libri più liberi. In entrambi gli incontri ci saranno sia gli autori sia i giovani curatori.

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it ospitiamo il racconto di Claudia Durastanti:

Un sistema chiuso

Era l’estate del 1998, quando venimmo a sapere delle strane giornate di sole nel paesino in cui eravamo cresciute. La madre di Vera, il nostro Colonnello, era apparsa nel monitor all’interno della sala comandi e aveva iniziato a gracchiare: «Dovresti essere qui con noi», poi il segnale audio si era perso e il Colonnello le aveva fatto segno di scrivere su un pezzo di carta. “… Trentasei gradi. Torna a casa, non sai cosa ti perdi”, leggemmo su un bigliettino appiccicato davanti alla telecamera. Ogni volta che chiamava qualcuno dal mondo esterno, entravamo tutte a spiare anche se quella conversazione non ci apparteneva; era come prendere un farmaco pesante per un disturbo di cui avvertivamo appena i sintomi.

Per qualcuno quei trentasei gradi saranno una notizia da poco, ma per noi, che eravamo cresciute in un paesino della costa occidentale in cui la temperatura media era di tredici gradi e non esistevano le oscillazioni stagionali, quel caldo rappresentava una crepa biblica, la fine dell’arcobaleno, l’aspirazione dei terremoti.

La madre del Colonnello si muoveva al rallentatore; le erano già apparse delle lentiggini. Il Colonnello somigliava di più a suo padre, un tecnico della sicurezza in un’azienda informatica da cui aveva ereditato i capelli glossati e facili da intrecciare, e un vantato acume per la scienza. Anche se non era lei a occuparsi delle nostre telecomunicazioni, né tantomeno dei sistemi che permettevano alla navicella di stare in orbita, non riusciva a partecipare a una riunione tecnica senza interferire.

«Pare che suo padre sia andato via di casa», mi aveva detto il Generale sottovoce, mentre gettavamo le scatolette della cena nel compattatore di rifiuti. Io avevo fissato il Colonnello dall’altra parte del tavolo, impegnata a battere l’Ingegnere a una partita a carte. Rideva, inviolata.

Il Generale si chiamava Maria, e l’Ingegnere che perdeva a carte tutte le sere si chiamava Jenny. Ci eravamo conosciute l’estate prima durante le selezioni finali, quelle destinate ad assegnare i vari ruoli per la missione, quando eravamo state interrogate prima da sole e poi in gruppo in uno stanzino che aveva solo una finestra. Chi veniva beccata a guardare fuori dalla finestra troppo a lungo aveva meno chance di passare; io non l’avevo fatto mai. Nel profilo psicologico che avevano compilato su di me dopo l’addestramento (non ebbi mai accesso alla versione completa, ma solo a quella che pensavano mi avrebbe fatto piacere leggere), c’era scritto: “Riluttante alla nostalgia”.

«Mi hai fatto buttare tutte le lettere che ti scambiavi con gli amici di penna», aveva commentato mia madre non appena glielo avevo raccontato. Gli amici di penna erano dei ragazzini invariabilmente cinesi con cui ci metteva in contatto la scuola elementare per rafforzare la nostra percezione del mondo e migliorare la loro comprensione dell’inglese, ma di fatto l’unica cosa che accadeva in quegli scambi erano descrizioni sature di tramonti e troppi punti esclamativi.

Tra le mie compagne di squadra ero io quella meno brava in analisi logica, e le mie equazioni non erano mai perfette, ma non avevo rivali alla guida della navicella, e resistevo meglio di loro in apnea. Sapevo riconoscere le piante infestanti da quelle che in caso di necessità potevano diventare commestibili, e così ero stata chiamata a far parte della squadra finale.

«Dacci un taglio, Soldato», mi diceva il Colonnello quando mi vedeva fare flessioni nel corridoio che dalla sala comandi portava alle nostre cuccette, oppure appesa a una sbarra d’acciaio per fare dei sollevamenti. «Ti verranno le braccia di un maschio.» Quello, per il Colonnello, era il peggiore insulto possibile. Ma io somigliavo già a un maschio, e non c’era nulla da peggiorare. Mi piacevano le mie scapole ossute e il taglio corto da attrice francese su cui aveva insistito mia madre; il Generale invece aveva l’abitudine di spazzolarsi i capelli seduta a gambe incrociate sul letto, con la maglietta bianca e un ciondolo a forma di farfalla che la faceva sembrare aggraziata e infantile.

Io ero piena di graffi, dormivo con un coltellino legato alla caviglia anche se non c’erano predatori nello spazio, e non mi spalmavo neanche la crema idratante sul viso: secondo i calcoli, quelle scorte di bellezza sarebbero finite prima che riuscissimo a raggiungere una stazione di approvvigionamento, ed era meglio non esserne assuefatte. Nessuna di noi pativa l’assenza di sole nella navicella perché non ci eravamo abituate comunque; il medico che ci aveva esaminato prima della partenza ci aveva dato delle compresse di vitamina D per la clausura, e se diventavamo più pallide e malnutrite ogni giorno non lo sapevamo, perché evitavamo di fissarci nelle superfici riflettenti: solo il Colonello restava attaccata al suo specchietto nascosto sotto il cuscino. Mi chiamava sempre Soldato e, anche se non era tecnicamente esatto, dato che nel protocollo ufficiale c’era scritto che ero un Luogotenente, non mi dispiaceva. Aveva in sé l’idea che, in caso di collisione con un asteroide o allunaggio improvviso, io sarei sopravvissuta, perché invece di perdere tempo a prendere decisioni come veniva imposto a chi aveva una qualifica superiore, sarei stata troppo impegnata a mettermi in salvo.

Nell’ultimo monitoraggio prima di partire, qualcuno aveva detto che ero una “survivalista”, sempre pronta al peggio. Lo scopo della missione era catturare forme di vita ostile per studiarne il comportamento, in modo da prevenirne gli attacchi o da sviluppare anticorpi sufficienti per resistere alla loro tossicità, e tutti speravano che la mia destrezza aiutasse le compagne di squadra in momenti difficili, ma io non ero sicura che in caso di fuga avrei rallentato la marcia per andare in loro soccorso. Forse lo avrei fatto per Maria, il Generale, che zoppicava un po’ per via di un incidente capitato prima di imbarcarci. Non diceva nulla, ma ogni tanto la vedevo massaggiarsi l’anca e quando ci sedevamo a tavola teneva il piede sollevato su una sedia. Forse Maria me la sarei caricata sulle spalle.

«Mia madre sembrava sbronza», disse il Colonello dopo aver chiuso il collegamento, e noi facemmo qualche battuta prima di preparare gli strumenti per l’interrogatorio. Una delle cose che ci piacevano di più della navicella era l’assenza di alcol o di sostanze che avevano avuto un peso specifico nella nostra vita di prima, per via dei fidanzati delle nostre madri o degli adulti in mezzo ai quali eravamo cresciute. Dentro la navicella le cattive abitudini erano residui che si dissipavano nell’aria prima ancora di assumere una forma, luminescenze follicolari che percepivamo a malapena.

L’Ingegnere, quella che leggeva di più fra tutte noi, mi aveva prestato il memoir di una cosmonauta sovietica tradotto in maniera amatoriale da un gruppo di ragazzi conosciuti in chat; se lo era stampato da sola in casa. Il memoir diceva che non è vero che lo spazio tira fuori chi siamo veramente, o che nella cattività ci riveliamo nel nostro peggior carattere. Là fuori nel cosmo, esibivamo caratteristiche che non sospettavamo di avere e quasi non era possibile credere che fossimo davvero noi, quelle nuove persone. Ma lo eravamo: nuove.

Quando ci eravamo ritrovate a parlarne, l’Ingegnere mi aveva detto: «Se l’ambiente sociale, la famiglia o la povertà cambiano il Dna della gente, perché non dovrebbe farlo la solitudine interstellare?», al che io le avevo chiesto se si sentiva sola e lei mi aveva risposto che non era quello il punto. Ma era vero: mi era parso di conoscere le mie compagne durante il ritiro prima della missione, ma nel corso della nostra coesistenza in uno spazio ristretto le cose erano cambiate, non ero più sicura di chi mi piacesse realmente, non ero sicura di piacere a loro, e non posso pensare che in quei giorni di mappe e calcoli gravitazionali ci stessimo rivelando per davvero; non stavamo arrivando al nostro scheletro, stavamo imparando a recitare in un nuovo sogno.

Vera, il Colonnello, per esempio non era mai stata crudele prima, ma lì dentro lo era diventata.

Quando sua madre ci chiamò, avevamo un prigioniero da ventiquattr’ore. Vera non le disse nulla, eravamo lì per la scienza e tanto le bastava.

Durante una delle sue perlustrazioni in superficie per prelevare dei campioni da riportare alla base, l’Ingegnere si era imbattuta in una creatura spastica e dagli arti asimmetrici, che emanava uno stridio metallico al passo. Era troppo lenta per tentare la fuga, così Jenny era riuscita subito a intrappolarla e portarla a bordo. Durante le prime ore, il prigioniero – il Generale aveva insistito affinché lo considerassimo un maschio – non aveva fatto che piangere ed esprimersi a vagiti. Per quello avevamo deciso di lasciarlo dormire, sperando che il giorno successivo rispondesse alle nostre domande. In realtà io non avevo molte da farne, sapevo già tutto di quelle creature: dal primo momento in cui avevo imparato a distinguere le nostre differenze nei manuali di biologia, non avevano suscitato più alcun effetto su di me, ma per le mie compagne era diverso.

La sala degli interrogatori era uno spazio angusto a cui si accedeva tramite una botola; per entrarci dovevamo scendere le scale una alla volta. Vera voleva tenerlo legato anche se ansimava, e io non feci nulla per difendere quell’essere raggrinzito dalla pelle di una sfumatura che non avrei saputo definire.

«Senti, non ho molta pazienza, è stata una giornata dura. Abbiamo avuto un guasto ai radiatori. Sai cos’è un radiatore?» La forma di vita ostile scosse la testa e ricominciò a mugolare.

Passammo un paio di ore così, poi io violai il protocollo e dissi all’Ingegnere di andare a prendere un broncodilatatore. Maria era l’unica di noi che aveva competenze di pronto soccorso, ma non voleva toccarlo. A fine giornata, quando ormai gli erano apparse delle piaghe rossastre sulla pelle e il prigioniero davanti a noi si era risolto a emettere un ronzio spento, e noi avevamo tutte la testa accasciata sul tavolo degli interrogatori, sudate ed esauste, e ci accarezzavamo i capelli a vicenda per tenerci sveglie, lo sentimmo parlare.

«Non sapevo quello che facevo», disse con la voce crepata, satura di medicinali.

Io ero quella che gli era seduta più vicina, e mi ero dovuta coprire il naso con il collare della tuta per evitare di sentire il tanfo che emanava, un misto di borotalco rancido e spore.

«Quando? Quando lo hai fatto?», sbottò Vera dando un calcio alla sua sedia.

Il prigioniero non aveva risposto per un po’, e Vera aveva iniziato a urlargli contro per costringerlo a parlare.

«Non sapevo quello che facevo.»

«Sì che lo sapevi invece», mormorò Maria, ma solo io riuscii a sentirla.

«Quando? Quando lo hai fatto?», sibilò Jenny.

«Quando lei era giù in cantina», disse puntando un dito sul nostro Generale.

Il Generale fu il primo a staccare dal turno quel giorno. Disse che le faceva male la gamba, e che non resisteva più senza aspirine, voleva farsi vedere da un medico. Provammo a convincerla a non abbandonare la missione, ma sapevo anche io che era allo stremo delle forze, e la stazione di rifornimento più vicina era anni luce da noi. Poi fu il turno dell’Ingegnere, che stava subendo pressioni per il ricongiungimento familiare. «Non pensavo mi sarebbero mancati così tanto», confessò una sera prima di addormentarsi, e lì mi era venuta voglia di prenderla a schiaffi.

Alla fine rimanemmo solo io e il Colonnello. Decidemmo di lasciare aperta la botola nel caso la creatura volesse uscire, non ci importava più ora che non eravamo un gruppo, e ci mettemmo a giocare a carte. Vera mi disse di chiamarla con il suo nome, non dovevo usare Colonnello; eravamo fuori dai ranghi adesso. Io invece le chiesi se poteva chiamarmi ancora Soldato.

Fui io l’ultima ad abbandonare la navicella.

Durante l’estate del 1998, in cui la temperatura arrivò a trentasei gradi, una navicella spaziale atterrò nel giardino dei genitori di Vera Di Giorno, uno dei Colonnelli più determinati e combattivi mai arruolati da un’agenzia spaziale. La navicella era dotata di un portellone, un lenzuolo bianco all’imbocco della struttura tenuto su con due mollettoni del bucato sbiaditi dal sole, e aveva le finestre di carta stagnola; sul fondo c’era una buca rivestita da assi di legno prese da un capanno degli attrezzi, il padre del Colonnello l’aveva ricoperta con una reticella metallica. La navicella era piena di ventilatori animati a pile per evitare di far surriscaldare gli apparecchi di navigazione, delle scatole formate da borse frigo rovesciate ricoperte da specchi e compact disc.

I vicini tollerarono bene quell’invasione: invitavano le astronaute alle loro feste in piscina, preparavano cocktail con l’ananas e la fragola, le facevano giocare con i bambini piccoli. Qualcuno chiedeva di scattare una foto alla navicella prima che venisse giù con le piogge destinate a tornare. Le astronaute che uscirono dalla navicella spaziale una alla volta, a distanza di poche ore, avevano i pantaloncini corti, il lucidalabbra, un lettore mp3 a testa, portavano notizie da mondi lontani, ma a volte parlavano anche la loro lingua, il vernacolo balbettante e fatuo degli adulti.

Nel tempo libero, quando non erano impegnate con le sedute di riadattamento al mondo svolte nel privato delle loro camere da letto, le astronaute si incontravano per strada, si aggrappavano ai rami bassi delle querce lungo i marciapiedi e si lasciavano dondolare prima di vedere quanto in là potevano saltare, nell’aria insolita e soffocante di certe giornate.

Una di loro si chiamava Maria, era amata dai professori e durante le lezioni di educazione sessuale si offriva sempre di fare la parte della ragazza incinta, scoppiava persino a piangere per simulare la devastazione procurata da una gravidanza giovanile.

Jenny – le sue amiche la chiamavano l’Ingegnere – in seguito scoprì da una vicina che il signore che viveva nella casa a schiera verde era scomparso; non si faceva vedere da qualche giorno. Era un omone lento che soffriva di afasia, l’unico suono riverberato dalla sua esistenza era quello del suo deambulatore che scricchiolava sulla strada. Non era simpatico a nessuno, ma era pur sempre un membro della comunità: dove poteva mai andare un uomo della sua età e senza familiari? I vicini si chiedevano se fosse morto, e un giorno andarono a bussare alla sua porta.

Una delle astronaute ero io. Anche se ero ben tollerata da chi mi circondava, anche se mi stavo abituando a cambiare lì sulla Terra e non solo fuori dall’orbita, a diventare una persona nuova tra i miei simili, non più un Soldato ma solo una ragazza in un corpo che mutava ogni giorno, non partecipai a quella spedizione per rintracciarlo. Quell’uomo aveva spaventato Maria. Lei lo aveva aiutato a prendere qualcosa di pesante in cantina, parcheggiando la bicicletta nel suo giardino, e lui l’aveva tenuta là sotto per un po’.

Una volta riusciti a entrare nella sua casa, i vicini lo trovarono riverso a terra nel magazzino degli attrezzi, era inciampato su una sedia e non era più riuscito a prendere il deambulatore. Era disidratato, biascicava; un’infermiera in pensione che viveva nel quartiere andò a rimetterlo in sesto di sua volontà, senza dire nulla all’assicurazione sanitaria.

Maria aveva sempre voluto essere il Generale, e nelle nostre discussioni prima della partenza avevo lavorato sodo affinché venisse promossa, ma era un titolo falso e non a caso era stata la prima a mollare; non reggeva neanche lei l’ipotesi di un carattere arrogante, la responsabilità di un disegno. Però l’idea della missione era stata sua e, alla luce dei suoi propositi, non avevamo osato ribattere, soprattutto quando si era messa a piangere. Jenny era quella più felice di essere tornata a casa, alla pacata rassegnazione dei pomodori ammaccati nel frigo, quelli prodotti nel cortile di suo padre che si ostinava a piantare ortaggi inadatti al nostro clima e costringeva la famiglia a cibarsi di frutti fuori stagione. Stando a quanto mi aveva detto Vera, sua madre non le aveva parlato molto dopo il rientro, era stata più loquace quando si era connessa al monitor nella sala comandi. Mia madre e io invece ci eravamo messe a studiare i reperti della missione sul tavolo della cucina; le spiegavo che certe pietre venivano dalla Luna, e quella era la sabbia di Venere, e le parlavo di tutti i pianeti in cui ero stata. «Mi piacciono questi capelli. Pari un’attrice francese», mi diceva spesso. Era naturale che le piacesse quel taglio, dato che era stata lei a sceglierlo.

Io e le altre ci vedemmo a scuola, per l’ultimo anno delle medie. Io e Jenny eravamo nella stessa classe, mentre Maria e Vera frequentavano un’altra sezione. Di tutte loro, anni dopo solo io mi sarei iscritta a una facoltà scientifica al college. Il Colonnello avrebbe avuto due figlie, si sarebbe trasferita in un posto più caldo tornando solo per assistere i genitori durante le loro sporadiche malattie, e incontrando mia madre al supermercato un giorno le avrebbe detto: «Salutami il Soldato». Mia madre si sarebbe innervosita, era un appellativo volgare e io non portavo mai a casa un fidanzato, cosa che la preoccupava ogni giorno di più.

L’ostaggio morì prima che scattasse il nuovo millennio, attaccato al respiratore. A detta dei vicini aveva trascorso gli ultimi giorni della sua vita in mitezza e in pace. Poi arrivò la figlia al funerale: nessuno sapeva della sua esistenza; durante la cerimonia pianse moltissimo, e il direttore del servizio funebre a un certo punto dovette avvicinarsi a lei per dirle qualche parola di conforto dato che tutti gli altri erano troppo raggelati per farlo.

Qualche giorno dopo la sua morte, contattai Maria su Messenger, chiedendole se secondo lei gli avevamo fatto del male con quell’interrogatorio. Lei iniziò a digitare una risposta senza completarla mai, neanche nei giorni successivi, e ogni volta che ci pensavo mi sentivo in colpa per averle rivolto quella domanda così stupida e cattolica, per aver contribuito alla sua vergogna invece di alleviargliela.

Avrei parlato di quella missione segreta ai miei compagni di università stesa sul letto dopo qualche festa: io e le altre non disdegnavamo bere, adesso, non una volta che ci eravamo allontanate dai fidanzati delle nostre madri. Avrei parlato del Generale dalla gamba ammaccata, delle mie flessioni prima di andare a dormire («Ma se dormi fino a mezzogiorno e non corri neanche»), di com’era stato crescere in una città fatta di piogge con la sensazione di essere sempre infiltrata da qualcosa.

«Io e le mie amiche andavamo sulla Luna ogni tanto», dicevo alla mia coinquilina, e lei scoppiava a ridere perché ero chiaramente sbronza. «E chi non ci andava da piccolo?», ribatteva alludendo ai giochi della sua infanzia, ma noi non eravamo più bambine quando c’eravamo state. Solo che a spiegarglielo non riuscivo, così fingevo di addormentarmi e lei veniva a coprirmi con il plaid che odorava di polvere ed era di proprietà del dormitorio, lo avevo ereditato da altri studenti prima di me, e io mi addormentavo pensando che avrei dovuto telefonare più spesso a casa, ma poi non lo facevo mai e non ci pensavo per mesi.

Le mie pagine preferite del memoir della cosmonauta sovietica, quelle su cui avevo pianto, descrivevano le violenze che aveva subìto nello spazio. “Un trauma vissuto fuori dal mondo è la stessa cosa?”, si chiedeva a un certo punto, in una pagina stampata male, che era arrivata a me con l’inchiostro sbavato. Jenny aveva sottolineato lo stesso passaggio. Ma non saprei citarlo alla perfezione, forse la frase non diceva proprio così: come tutto quello che lasciammo nella navicella, anche quel libro si è perso. Durante l’ultimo anno delle medie Jenny avrebbe smesso di leggere fantascienza per passare all’esistenzialismo, e io mi vergognavo troppo per chiederle di mettermi in contatto con i ragazzi che aveva conosciuto in rete e le avevano passato quel materiale.

Ancora oggi, quando faccio delle ricerche su Google o altri siti – mi sono persino collegata a internet con un falso IP dalla Russia –, non trovo tracce di quel memoir. E anche se ormai so che lo aveva scritto proprio Jenny, che si era inventata quella storia per farmela leggere e mettere alla prova le sue paure, anche se so che tutto quello che era successo nel giardino del Colonnello era una finzione, un modo di salvare qualcuno che avevamo bisogno di salvare, non posso fare a meno di pensare che nella vita non ho più ritrovato delle persone con cui farlo: mettermi alla prova, diventare una persona nuova nella sicurezza di un sistema chiuso, mentre fuori l’estate scioglieva gli specchi e liquefaceva gli stagni e assassinava specie anfibie e fragili, e tutte noi aspettavamo una nuova inondazione.

(continua in libreria…)

Il racconto di Claudia Durastanti è pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag., Milano.

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