Leggere oggi i saggi di Susan Sontag (1933-2004), che non si accontentava “di essere un’accademica”, dà la sensazione di un viaggio in cui l’itinerario è pieno di imprevisti, la meta non è chiara, il piacere della scoperta ricchissimo, e non si sa mai dove si andrà a finire (anche se non mancano certo i punti ciechi e le svolte sbagliate). Lo scrittore, del resto, è “qualcuno che si interessa a tutto”

In un libretto importante degli anni Sessanta, e ormai quasi introvabile, Roland Barthes descriveva la cosiddetta, come sempre dai suoi detrattori, “nuova critica” come un’avventura.

Forse non c’è parola migliore per additare l’esperienza di lettura dei saggi di Susan Sontag, intellettuale molto diversa, sotto molti aspetti, da Barthes (cui pure dedica un bellissimo ricordo nel 1980 e raccolto in Sotto il segno di Saturno), ma con alcuni punti di contatto significativi. Perché leggere Sontag dà appunto la sensazione di un viaggio in cui l’itinerario è pieno di imprevisti, la meta non è chiara, il piacere della scoperta ricchissimi, e non si sa mai dove si andrà a finire – e non mancano certo i punti ciechi, le svolte sbagliate e le cantonate.

Sotto il segno di Saturno di Susan Sontag

La stessa Sontag, d’altronde, nel 1996, nella postfazione per la riedizione del suo libro più noto, Contro l’interpretazione, definisce lo scrittore (e si auto-definisce) come “qualcuno che si interessa a tutto”, e così davvero sembra essere Sontag, con la sua mania degli elenchi e delle frasi lapidarie, per dire appunto tutto, o almeno il più possibile. E divertendosi, anche, perché no, nell’impresa, perché non accontentandosi “di essere un’accademica”, come lei stessa ricorda, non fa che seguire e ribadire l’importanza del godimento estetico quando si leggono opere d’arte e si interpretano (ma la parola è evidentemente sbagliata per la propugnatrice di un’erotica dell’arte); e quindi non la caduta di ogni gerarchia fra alto e basso, ma il rifiuto di dover scegliere, di dover escludere, e la rivendicazione di poter godere e parlare dei Doors e di Dostoevskij. Non rinunciando, per questo, al giudizio di valore: “ero un’esteta battagliera e una malcelata moralista”.

La postfazione a Contro l’interpretazione si potrebbe sostenere, per utilizzare il titolo di un’altra grande raccolta di Sontag, è posta già, ma senza rassegnazione, sotto il segno di Saturno. Nel momento del bilancio, Sontag deve ormai constatare che “i valori sempre più trionfanti del capitalismo consumistico promuovono – anzi impongono – le commistioni culturali, l’insolenza e la difesa del piacere che io propugnavo per ragioni del tutto diverse”. E a rileggere oggi Sotto il segni di Saturno (da poco ripubblicato da Nottetempo, come molte altre opere di Sontag, nella traduzione di Paolo Dilonardo), si direbbe che in questo libro la prospettiva del senno di poi era già lì.

Sotto il segno di Saturno è il libro degli anni Settanta – la scansione per decenni era molto in uggia a Sontag, ma in questo caso aiuta: gli articoli qui raccolti sono stati pubblicati fra il 1972 e il 1980 e già, rispetto a Contro l’interpretazione, la prospettiva sembra essere cambiata.

Basti pensare al lungo saggio Accostarsi ad Artaud che più che un’appassionata (e pur in un libro posto sotto il segno della malinconia la passione della critica non viene mai meno) introduzione all’opera di Artaud (e certo è anche questo), sembra un saggio sull’assimilazione delle contro-culture da parte del mainstream e sull’insufficienza di quello che oggi chiameremmo culturalismo (e che per Sontag era già un abbozzo di saggio critico sulla cultura di destra).

In maniera non molto dissimile da quanto certi membri più avvertiti dell’avanguardia andavano predicando ai mulini a vento, Sontag nota con estrema lucidità che la cultura moderna (la cultura capitalista) “ha messo in atto un potente meccanismo attraverso cui le opere dissidenti, dopo aver conquistato uno stato di semi-ufficialità in quanto ‘avanguardia’, vengono gradualmente assorbite e rese accettabili”. Le stanze del mercato e del museo, diceva qualcuno, sono comunicanti, ma prima ancora, il gesto di rivolta, il gesto antisociale, il gesto di rottura, finirà per essere assorbito. Che questo discorso sia fatto in un saggio che chiama spesso in causa il Surrealismo non stupisce, essendo questo il movimento d’avanguardia che più di altri ha finito per massificarsi suo malgrado. Ma questa constatazione non lascia mai l’incedere della malinconia o della rassegnazione: perché Artaud seppure ormai un classico delle controculture è per certi versi inassimilabile, la sua pratica teatrale essendo un continuo fallimento non aveva i prerequisiti per essere assimilata.

Il saggio su Artaud è anche un saggio sulla cultura di destra che davvero fa da filo rosso nascosto di una delle principali avventure che si possono percorrere in questo libro, e basti pensare a alcuni titoli come Fascino fascista e L’Hitler di Syberberg. Ma prima ancora del confronto diretto, questo tema si annida fra le pagine da uno dei molti detours della scrittura di Sontag, come riflessione sull’erroneità di una rivoluzione che si voglia solo culturale: questa era l’utopia, la rivoluzione sognata da Artaud, che non aveva nulla a che fare con la politica: “non soltanto Artaud condivideva la diffusa (ed erronea) fiducia nella possibilità di una rivoluzione culturale sganciata dal mutamento politico, ma suggeriva che l’unica, autentica rivoluzione culturale non aveva nulla a che fare con la politica”.

Sontag lucidamente ribalda la prospettiva di Artaud (e si capisce bene quanto attuale sia questo discorso nei nostri anni di culture wars), riconducendo quest’idea a uno specifico paradigma di pensiero che è quello, appunto, della cultura di destra: di Nietzsche, Spengler e via dicendo (come ha recentemente mostrato Mimmo Cangino nel suo libro Cultura di destra e società di massa). Qui Sontag ritrova un radicalismo culturale che è illusorio e, in ultima analisi, “conservatore nelle implicazioni”, in quanto antipolitico: “una rivoluzione culturale che rifiuta di essere politica non può che indirizzarsi verso una teologia della cultura – e una soteriologia”.

Non stupisce, allora, trovare molte pagine in cui Sontag riflette non solo sulle riabilitazione del fascismo, ma a questo punto potremmo dire delle assimilazioni da parte della cultura contemporanea dell’arte fascista. È un altro dei discorsi pieni di diramazioni che questo libro dipana davanti a sé, ma che tendono in ultima istanza a delle considerazioni, oggi non del tutto condivisibili, sul sadomaso.

Ma in questa avventura Sontag nota con estremo acume una serie di fenomeni con cui non abbiamo fatto ancora i conti, vale a dire la popolarità dell’arte che evoca i temi dell’estetica fascista, la sua vicinanza con il camp e con le sottoculture omosessuali. Da Pompe funebri, romanzo degli anni quaranta di Jean Genet, uno dei primi a fornirci il fascino erotico esercitato dal fascismo su chi non è fascista, Sontag attraversa oggetti culturali molto diversi fra loro, Confessioni di una maschera e Sole e acciaio del giapponese (e ardente nazionalista fino a praticare il seppuku) Yokio Mishima, film come Scorpio Rising di Kenneth Anger, o La caduta degli dèi di Visconti e Il portiere di notte di Liliana Cavani.

Sono spesso considerazioni indisciplinate, che cercano di tenere insieme quella vocazione a voler parlare di tutto che anima tutta l’attività intellettuale di Sontag, e che nonostante tutto ci richiamano con grande acume a problematiche ancora da risolvere e indagare. Proprio alla necessità di studiare le relazione fra estetica queer e fascismo, per esempio, dedica un capitolo dell’Arte queer del fallimento Jack Halberstam, uno dei libri più interessanti, divertenti, eterogenei, non sempre condivisibili, che mi è capitato di leggere di recente. Proprio come i libri di Sontag. Che riesce a scrivere un’avventura anche sotto il segno di Saturno.

 

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Fotografia header: Susan Sontag, foto Getty Editorial

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