Con “La vita adulta”, di cui ilLibraio.it pubblica un capitolo (dal titolo “L’impossibile mestiere di farsi pagare”), Andrea Inglese offre un ritratto ironico e spietato del lavoro intellettuale contemporaneo – e dell’arte in particolare – ma, soprattutto, dei “tardogiovani” di oggi, che la vita adulta atterrisce o invece esclude…

Tommaso è un critico d’arte. Mentre progetta il “saggio definitivo”, si divide tra supplenze, un misconosciuto lavoro di redazione e altre forme di precariato culturale, che alle soglie dei cinquant’anni lo gettano in una crisi allo stesso tempo intellettuale e sentimentale. La sua “vita adulta” appare irrimediabilmente imbrigliata nella “triade maledetta: lavoro, moglie, figli“.

Nina è una performer: dopo aver sfiorato il successo internazionale con un esordio folgorante, si è quasi ritirata dalla scena artistica, rifiutando di sottostare alle leggi del mercato. Attraverso il corpo e una sessualità libera, benché non sempre gioiosa, Nina si appropria della realtà, senza lasciarsi condizionare da convenzioni e strategie di carriera.

La vita adulta (Ponte alle Grazie), nuovo romanzo di Andrea Inglese, è la storia della loro affinità elettiva, che si snoda tra Milano e Berlino, fino a quando Tommaso e Nina si incontrano e si riconoscono come due personaggi “in cerca di vie di fuga”, aiutandosi a mettere a fuoco desideri e bisogni.

Con La vita adulta, Inglese (che vive nei pressi di Parigi e scrive in versi e in prosa) offre un ritratto ironico e spietato del lavoro intellettuale contemporaneo – e dell’arte in particolare, con i suoi imperativi di successo – ma soprattutto dei “tardogiovani” di oggi, che la vita adulta atterrisce o invece esclude. E pone domande cruciali: è ancora possibile, oggi, diventare adulti al modo dei nostri padri? Esiste ancora quel che si chiamava maturità? È mai esistita, o si è sempre e solo invocato il suo fantasma?

andrea inglese la vita adulta

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo:

19. L’impossibile mestiere di farsi pagare

Nardi insiste al telefono, perché un invito al MAXXI fatto da Paolo Celona, uno dei maggiori critici d’arte contemporanea in Italia, non si rifiuta. Nardi è il suo capo, il direttore di Campoarte. Un tizio difficilmente gestibile, che alterna in una stessa giornata la figura del padrone autoritario, del contabile disperato, dell’amico che ravana nella tua vita privata, dell’intellettuale appassionato e tempestoso. In questo momento, gli fa da consulente professionale, a lui, Tommaso Zappa, che è stato assunto a tempo indeterminato come redattore solo un anno prima, dopo più di un lustro di collaborazioni free lance sottopagate.

«Sarebbero due conferenze, una su Warhol e una sulla Pop Art più in generale, manco le devi preparare, Zappa!»

«Sì, benissimo, ma mi hai detto che non me le pagano».

«Ti pagano viaggio e notte, sputaci sopra!»

«Non sono più uno sbarbatello, Nardi! Faccio questo lavoro, se possiamo ancora chiamarlo così, da più di vent’anni. È possibile che non caccino mai una lira? Celona dovrebbe capirle queste cose»

«Certo che le capisce! Infatti vuole presentarti al nuovo direttore del MAXXI Arte. Comincia con queste due conferenze, è un modo per metterci un piede dentro».

«Guarda che non è la prima volta che m’invitano. Tanto non gli costo nulla».

«Ma se ho detto che ti pagano!»

«No, Nardi, quelle sono le spese. Pagare è quando ti danno anche il gettone, ossia sborsano soldi per la preparazione della conferenza».

«Ma è tutta roba che sai a memoria, Zappa! E poi, scusa, lo sai come sono messi. Non hanno soldi. Questa è un’iniziativa di Celona, che ha convinto il direttore. E se funziona, se viene gente, poi la ripropongono ampliata l’anno successivo».

Andrea Inglese

Andrea Inglese – foto di Mylène Sarant

Paolo Celona ha richiesto inequivocabilmente l’intervento di Tommaso Zappa. Celona, quello che aveva scritto tutto, su di tutti, ovunque. Lo straordinario specialista che era in tutte le commissioni e in tutte le redazioni; il gran curatore, con agganci nei musei, nelle università, nelle fondazioni private. Uno bravo, aggiornatissimo, una «macchina da guerra». Magrolino, occhi avvampanti, voce atona, gay. Più giovane di qualche anno, ma molto più potente di lui. Perché Tommaso Zappa è stimato, sì, di questo è abbastanza certo, e quell’invito lo dimostra, ma non muove niente, non ha accesso né ai soldi, né alla programmazione di eventi, né alla distribuzione degli incarichi. Celona, invece, si era già stufato di scrivere e di studiare. Lui voleva agire sul paesaggio dell’arte contemporanea, modellare le istituzioni, il gusto della gente, voleva inabissare alcuni artisti e portarne in trionfo altri, e raccogliere intorno a sé un drappello di docili e volenterosi combattenti, fedeli alla sua causa. Con Zappa era stato sempre guardingo. Aveva accettato di buon grado le sue proposte di collaborazione per Campoarte, si era dimostrato curioso e cordiale ogni volta che si erano incontrati, e l’aveva già coinvolto in un paio di progetti editoriali prestigiosi. Ma probabilmente non mi considera granché affidabile, si diceva Tommaso. Non ho quella dedizione alla causa che hanno i critici più giovani, anche perché, di tanto in tanto, ho pure due o tre idee originali, e ci tengo a difenderle. Ed è un lusso che loro in genere non si possono permettere. Il mestiere è ingrato, con sempre meno soldi che circolano e sempre più gente che pretende di farlo. Si sopravvive se ci si abitua subito a seguire il vento che tira. Per certi aspetti funziona per i critici giovani come per gli artisti giovani: bisogna prima assicurarsi in tutti i modi di essere dentro, di venir accettati, di non spaventare nessuno, poi si valuta, senza alcuna fretta, se si ha anche qualcosa d’importante o nuovo da dire.

Tommaso negli anni ha acquistato un certo grado di consapevolezza di sé, e sa cosa va protetto del suo lavoro anche contro i piccoli vantaggi immediati. D’altro comunque non si tratta. Nella critica d’arte, per uno con il suo percorso e la sua età, non si perseguono ormai che piccoli vantaggi: un invito con rimborso al MAXXI, una partecipazione a un catalogo e, nel migliore dei casi, un corso di quaranta ore di Arti Multimediali a Brera. I giochi sono fatti: i primi della classe sono già emersi, e gli incarichi per cui bisognava lottare con il coltello trai denti sono stati in gran parte assegnati. Inoltre, e anche questo Tommaso l’ha capito, le sue due o tre idee originali, se per un verso costituiscono la maggior ragione di stima da lui ottenuta nell’ambiente, per l’altro sono proprio ciò che lo rende poco attraente per il grande pubblico. Il suo mestiere, però, consiste nel mediare tra l’opera e i comuni mortali, e più costoro vengono coinvolti e persuasi dalla sua mediazione, più la sua attività critica è da considerarsi un successo. Purtroppo una qualche sciagura aveva presto interrotto le vie di comunicazione tra lui, l’opera degli artisti che amava, e il grande pubblico. Ci ha messo anni a capirlo, e dopo aver sperimentato tutti i vari stati emotivi causati da questo disaccordo – dal piagnisteo vittimistico alla superba indifferenza del genio – ha accettato il giudizio di Simone Guarini, l’amico pittore: «Sei del tutto sordo a quello che piace o può interessare un gran numero di persone. Fattene una ragione, Tom. Non sei pop, è un sensore che ti manca. A volte semplicemente arrivi troppo presto o sei nel posto sbagliato. Guarda il lavorone che hai fatto su Matthew Barney all’uscita di Cremaster. In Italia non se l’è cagato nessuno. Negli Stati Uniti avrebbe suscitato grande interesse. Ora è inattuale sia qui che là». In effetti, il saggio che aveva scritto sull’artista americano era troppo lungo e approfondito per finire su Campoarte, ma d’altra parte verteva su di un’opera non ancora digerita dal mondo accademico. A ciò si aggiunga la sua pretesa di elaborare, attraverso il caso Barney, una sorta di nuovo paradigma estetico in grado di leggere un’intera famiglia di opere contemporanee. Alla fine trovò ospitalità su Crash Data, una magnifica, ma poco maneggevole «rivista di meditazioni e arti distopiche», messa in piedi da un gruppo di giovani filosofi senza dottorato e artisti senza galleria, che sopravvisse per tre numeri annuali, con una tiratura di centoventi esemplari a numero, parte dei quali tutt’ora ben inscatolati e al riparo dalla polvere nel solaio di uno degli ideatori. Di tutte le cose che Tommaso ha scritto nel corso della sua attività, è una di quelle di cui va più orgoglioso, e che ha avuto, però, il numero più esiguo e impreparato di lettori.

«Non puoi dire di no a Celona. Poi quello te la giura. Lo sai come funziona in Italia. Basta che dici no una volta, e non ti chiamano più. Diventi persona non grata. E dietro ce ne sono già quaranta che al MAXXI ci vanno non solo a proprie spese e dormendo sul divano di un amico, ma che ci resterebbero a fare uno stage gratis per un mese». Finisce sempre così questa discussione, pensa Tommaso. Non si arriva neppure allo stadio della banale rivendicazione salariale che in un mondo capitalistico, ma ancora un po’ democratico, dovrebbe essere circostanza ordinaria. Si viene inchiodati a una forma di lamentela schizzinosa. Ancora una volta lui viene trattato come un bambino capriccioso, inabile a capire le ragioni della crisi che affligge il mondo tutto della cultura nazionale, e che l’ha afflitto dal giorno in cui vi ha mosso i primi passi. Per di più tale bambino è incapace di valutare i privilegi a cui ha accesso. In realtà, le cose vanno altrimenti, ma tuffate in una nebbia di omertà definitiva. Se si vuole capire chi sono considerati i critici di serie A, basta guardare coloro il cui lavoro viene pagato, di modo che i critici di serie B sono quelli semplicemente rimborsati, e nel girone C si affastellano tutti coloro che corrono su e giù per la Penisola, parlando e scrivendo ovunque, nella più completa, entusiasta, gratuità sacrificale. Naturalmente tale diagramma può senza grossi problemi essere applicato al mondo del cinema, del teatro, della danza, della musica, della narrativa, e della poesia, perché poi, di più culturale e in crisi di questa, non c’è fortunatamente più nulla.

Uno degli assiomi impliciti di tale malaugurato sistema è che, se non vieni da una famiglia con un solido patrimonio e/o una fitta agenda nel mondo culturale, fare l’artista o il critico d’arte è una missione largamente ostacolata, non del tutto, però, come il successo di Nicola Racco, figlio di un panettiere e di una sarta, dimostra. Ma qualche artista o scrittore di origini popolari, magari operaie, va anche bene, a patto che collezioni, gallerie, musei, case editrici siano al sicuro nelle mani della borghesia. Quest’ultima s’interessa all’arte per ragioni sempre meno chiare, scarichi fiscali a parte, ma continua a esigere di esercitare su di essa il suo competente controllo. Quanto alla non borghesia, deve pur fare qualcosa nel tempo libero. Quindi ci sono i musei, gli spettacoli, gli eventi culturali, per cui tutti sono disposti a mettersi obbedientemente in coda, e più la coda è lunga e avvilente, più la qualità dell’evento è garantita.

Nardi comunque ha ragione. Celona forse vuole arruolare Tommaso nella sua tribù. Gli serve una figura autorevole ma defilata, capace ma non ingombrante. O forse ha finito per apprezzarlo veramente. Alla fine ha letto il pdf del suo lungo saggio su Barney che Tommaso gli aveva spedito un anno prima e ha pensato: Però, questo Zappa. Tommaso non desidera altro. Un riconoscimento tra pari, seppure velato di condiscendenza. Oppure Celona non ha letto il saggio, non ha progetti di cooptazione riguardo a Zappa, ma semplicemente deve tappare un buco improvviso, creato da uno dei conferenzieri inizialmente coinvolti – un critico di serie A –, che li ha mollati per qualcosa di meglio pagato o più prestigioso.

Tommaso ha finito per acconsentire. Non ha neanche condizioni da porre. E in questo modo si evita le ritorsioni del capo. Anche se al MAXXI non ci va per conto di Campoarte, a Nardi fa comunque comodo un possibile connubio Zappa e Celona.

Ora è contento, lo percepisce dal tono di voce divenuto di colpo più giocoso. Ha ottenuto quello che voleva. «A proposito, Zappa, come ti trovi a Stalingrado?!»

«A Stalingrado?»

«Ma sì, a Sesto San Giovanni, antico bastione comunista!»

«Ah! Guarda… Ha degli aspetti affascinanti… Di comunista non c’è rimasto granché, ma qui il postmoderno non è mai morto. La fa ancora da padrone. Soprattutto il postmoderno condominiale. Con tutti i peggiori giallini acidi, verdi slavati e grigio talpa».

Tommaso ha rodato due o tre discorsi su Sesto, tagliati sui possibili interlocutori. C’è quello sulla popolazione multiculturale, quello sulla sopravvivenza degli orti operai e infine quello sull’architettura. Per Nardi, è appropriata una disquisizione sulla persistenza del palazzone postmoderno.

«Bene, bene! Io allora confermo a Celona. A presto!»

Tommaso dimentica sempre che l’interesse di Nardi per la sua vita privata scompare nel momento stesso in cui viene evocato. È più una formula di commiato, che l’incitamento a raccontargli qualcosa che esuli da questioni strettamente lavorative. D’altra parte, le informazioni sulla vita di Tommaso che gli interessano, Nardi è abilissimo a raccoglierle dalla cerchia di conoscenze che hanno in comune.

(continua in libreria…)

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