Un gruppo di amici si ritrova per festeggiare Capodanno in una villa ai bordi del mare toscano. In questa serata di festa ognuno non è ciò che dice di essere, mai chi realmente è… – Su ilLibraio.it il racconto “Andrea” da “L’anno capovolto”, il nuovo libro di Simone Innocenti

Simone Innocenti, giornalista e autore, ha pubblicato Vani d’ombra (Voland) e la guida letteraria Firenze Mare (Perrone). Si occupa di cronaca nera e giudiziaria e ha scritto per Il Corriere, La Nazione, Il Giornale della Toscana, Avvenire, L’Espresso e Sette. Attualmente lavora al Corriere Fiorentino e collabora con La Lettura.

A metà giugno, per Blu Atlantide, arriva in libreria il suo nuovo libro, L’anno capovolto, in cui un gruppo di amici si ritrova per festeggiare Capodanno in una villa ai bordi del mare toscano. In questa serata di festa ognuno non è ciò che dice di essere, mai chi realmente è. Il Capodanno è un tempo dove presente, passato e futuro sono, per un attimo, lo stesso momento. Ed è in questo tempo – consumato attorno a un tavolo imbandito – che si muovono i personaggi di questa storia. Un tempo dove realtà e finzione sono le facce della stessa medaglia.

Nella sfarzosa villa dell’imprenditore Giulio, accolti dalla sua affascinante moglie Francesca, come ogni anno sfilano gli amici di una vita. Tra gli altri, un notaio e una modella, un insegnante di tennis e un’assicuratrice, un poliziotto, un rappresentante di lampadine e una donna in carriera.

Quello che unisce questo gruppo di persone tra i trenta e i quaranta anni è un’antica consuetudine amicale, nata sulle spiagge della Versilia quando erano ancora poco più che adolescenti, e consolidatasi negli anni che sono passati da allora: storie di affetto, di invidia, di soldi, di sesso e di ricatti. Storie di segreti nascosti che improvvisamente si rivelano. E in mezzo a tutto questo – quasi un’eco eterno della quotidianità – la natura intorno: un mare che è sempre a due passi e che sembra voler sfuggire a una montagna che lo insegue e sul quale incombe.

È nell’arco di questo tempo – scandito dai granelli di sabbia della clessidra che si trova nella villa della cena – che si consumeranno, in una sola sera, le loro esistenze, i loro bilanci, i loro sogni e le loro ambizioni. E, forse, anche la loro fine.

simone innocenti l'anno capovolto

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un racconto:

“Andrea”

di Simone Innocenti

C’è questo parapiglia che lo assorbe e mica lo ha capito come andrà a finire. Nossignore, proprio no. Non voleva neppure immischiarsi, se ne stava tranquillo tranquillo, seduto sulla sedia a guardare una goccia di sudore che si era impressa sulla terra. Seduto come ora, se lo ricorda bene. Solo che quella volta non era vestito elegante e non c’era nessuna festa di passaggio da santificare e nessun tempo da aspettare per fare il brindisi. C’era il suo campo di tennis, era estate, caldo di risulta: a questo si era abituato, non gli faceva differenza, neanche osservarsi le scarpe impolverate dal rosso della terra battuta gli faceva la differenza. Quella goccia di sudore, invece sì. Perché non gli sembrava destinata a evaporare ma a mettere radici, un piccolo seme che gli stava germinando in testa. «Come mai così serio stasera?», gli chiede Francesca. «Ma veramente non mi pare», risponde mentre sta fissando il presepe che – nel salone di questa villa – si è trovato quasi frontalmente rispetto al posto a sedere che si è assegnato. «Ma veramente sono settimane che sei diventato cupo», ribatte Francesca mentre spalma il caviale su una fetta integrale. Lui non profferisce parola, lei – come che sia – ci ha indovinato: lui battuto, zero repliche. Set a favore di lei, per fortuna nell’indifferenza totale del pubblico di amici.

Si rimette a osservare il presepe, i Magi e il corteo sacro guidati alla grotta di Betlemme da una stella a forma di cometa. Stessa forma di quella goccia di sudore osservata sul campo da tennis, a fine partita. Il parapiglia con se stesso era cominciato così, col suo sguardo attratto a terra dopo che era andato a sedersi per riposare. Perché se anche sudava – e faceva un caldo tale che il sole sembrava un altoforno sulle spalle dei giocatori – non era stanchezza fisica quella che aveva in corpo, ma vero e proprio panico. A trentotto anni Andrea, che quel giorno di agosto stava facendo il suo turno da maestro di tennis, pensò che quella goccia fosse Dio e – per l’esattezza – fosse un messaggio di Dio. Che cazzo aveva in testa?, si disse. Che cazzo aveva in testa quando aveva accettato di insegnare questo sport a un bambino autistico? Siamo alla fine della prima lezione e già penso a Dio.

«Che ti succede, Andrea?», gli sta dicendo Marta con un tempismo che la rende la migliore del gruppo a intromettersi nei pensieri degli altri, la solita impicciona. «Ma nulla», risponde. Nulla un cazzo. Di tutto, gli sta succedendo di tutto da qualche mese a questa parte e tutto è iniziato proprio nel campo che a lui è più familiare, quello da tennis.

La sua professione era cominciata per scherzo e Dio non c’entrava proprio niente. A meno di non volerlo vedere quando da piccolo gli avevano regalato il necessario per giocare a badminton pensando che fosse un modo per non disturbare la gente sulla spiaggia: ma dov’era Dio in quella pallina – sedici piume infilate attorno a una base di sughero – che schizzava come un proiettile? Non c’era neppure a quindici anni quando scendeva in campo con la sua racchetta in fibra di carbonio e sembrava imbattibile. Diventava anche bello, in questo sforzo consunto di battere la palla a terra nel campo avversario e di vincere come fosse un diritto da far rispettare.

Figurarsi se c’era Dio quando si mise a fare il maestro da tennis in quel circolo esclusivo, dove chiunque pagava fior di soldi, e solo per poterci stare. Se Dio c’era, era – semmai – nella blasfemia di quei corpi di donna che Andrea incontrava a fine corso. Perché c’è solo qualcosa di più bello di un corpo di donna e sono due corpi di donna, coi quali giocare assieme dietro al casottino degli attrezzi, trasformato in una garçonniere. Oh mio Dio, sì!

«Ma si può sapere che cosa fissi?», gli sta dicendo Enrico. «Lì c’è un presepe, non una delle tue allieve», lo sta motteggiando Nello, che è accanto a lui. «Non lo vedi come lo consumano?», lo indica Giulio calcando col dito il suo fisico asciutto e tonico, racchiuso in un collo alto di lana bianca. «Ma fate sempre le solite battute, voi altri», taglia corto lui pensando che almeno questa volta Dio forse c’entra qualcosa visto che ha davanti il presepe. «Siete solo invidiosi per via del suo fisico», interviene Francesca che è tornata appena in tempo per prendere una bottiglia dalla cucina e per riservare uno sguardo a Emanuele senza che suo marito Giulio se ne accorga. Tattica, visione del gioco, intuito e spregiudicatezza valgono in campo quanto fuori da lì, se ci sai fare.

«Fatemi passare, che vado un attimo in bagno», dice Andrea che magari al cesso Dio non c’è e lì non avrebbe fatto paragoni. I soliti paragoni tra l’Altissimo e la sua vita che da mesi gli ronzano in testa: che fregatura mettersi a ricalcolare la propria esistenza. Il Signore – si ripeteva allora – era iniziato a entrarci con la morte di suo nonno e lui non aveva saputo come reagire, non c’era nessuna manovra da opporre, nessun cambio campo da effettuare al cimitero, dove avevano appena fatto scendere sottoterra la bara di quell’uomo dai capelli bianchi che Andrea aveva amato. Men che meno sapeva cosa dire dopo quel sogno, due giorni dopo la tumulazione della salma. Sognò di essere in fondo alla chiesa, il portale aperto da lui, il sole inondava il presbiterio e una bara dove c’era suo nonno: poi la massa di luce aveva infiammato tutto, là in fondo, e gli sembrava che però non ci fosse più una bara ma ora in piedi ci fosse suo nonno: a braccia aperte, come Cristo in croce. Allora lui era corso ad abbracciarlo smarrendosi in quel groviglio di lucentezza, solo che non era più in chiesa ma a casa sua. Il sogno gli diceva che era crollato, la realtà che era caduto dal letto.

Erano passati anni, sembra ieri. Anzi sembra proprio ora, con un tempo che è una partita da giocare dentro un rettangolo ben definito o col tempo di questa clessidra che si ritrova accanto alle boccette di profumo. Chissà come mai i sogni non hanno nessun odore?, si chiede guardandosi allo specchio del bagno.

Dopo quella notte non scese più in campo per gareggiare, preferì mettersi a insegnare. Sembrava però diventato un altro: rigoroso al limite dell’intransigenza, purista delle regole. Il campo di gioco diventò qualcosa di sacro perché – Andrea se la spiegò così – quello che accadeva lì dentro si portava in dote una logica ferrea: neanche il solleone riusciva a confondere chi avevi davanti. Lo dovevi battere, non correre ad abbracciarlo in un groviglio di lucentezza. Quindi se tutto è così chiaro – gli venne spontaneo da pensare – come ha fatto Dio a intrufolarsi in tutto questo?

«Ma allora? Ci sei o ci fai?», gli ha appena chiesto Nello, scuotendolo all’improvviso nella realtà del tavolo dove è appena tornato. E questa gli pare la partita più difficile da giocare: prima o poi glielo doveva dire. «Ci gioco», risponde. «Che novità!», allarga le braccia Nello. Ma che ne sa Nello – e che ne sanno tutti gli altri – di quando quel bambino autistico – si chiama Davide, ha dieci anni e sembra un grumo di silenzio – durante la prima lezione si era improvvisamente trasformato, come animato. E si era messo a giocare, correva con la racchetta nella sua parte di campo, sembrava volare. Ma che ne sanno gli altri – tutti qua a cazzeggiare senza un senso – del senso che ha trovato da quel giorno in poi e di come Davide abbandonasse la sua solitudine e il suo silenzio appena varcato il bordo del campo, quella linea immaginaria che lo portava in un altro spazio e in un altro tempo. Ebbe quasi un mancamento, la madre di Davide, a vedere Davide così.

Lì per lì Andrea non si era impressionato: lui giocava con gli altri per insegnare a battere gli altri. A fine incontro quel bambino – così problematico, così chiuso – tornò a essere il Davide che la madre conosceva, tranne che per un timido saluto che rivolse ad Andrea subito dopo essere uscito fuori dal campo. «È un miracolo», gli disse la donna. «È lo sport, lo riporti anche domani se vuole», si scoprì a risponderle. Poi si sedette sulla sedia, le braccia poggiate sulle ginocchia, la testa reclinata. E la vide: era una goccia a forma di stella cometa, ci vide Dio.

«È come essere in bilico sul tempo, altro che Capodanno», sente arrivargli da dietro la voce di Caterina senza sapere a che cosa si riferisca quella frase, ma è la frase perfetta per ciò che – in quelle settimane – ha vissuto facendo da maestro di tennis a Davide, prima che lui, una volta finite le vacanze, tornasse con la sua famiglia nel Nord industriale che Andrea tanto temeva perché c’era la nebbia. Ma forse era meglio che fosse anche qua, a Marina di Massa, la nebbia: magari la goccia di sudore a forma di cometa non si sarebbe mai materializzata a terra alla fine delle lezioni con Davide. Capace fosse solo un problema di agenti atmosferici e, si sa, il mare fa miracoli. «Oh, guarda Caterina come è tutta tirata», gli dà di gomito Nello, e Andrea vede Caterina sfilare avanti e indietro tre volte, anche lui si mette a urlare, gli sembra di tornare nel tempo che conosce, non di starci in bilico, torna a fluire come quello della clessidra, tutto torna chiaro. Al diavolo questa sua mania della stella cometa, basta cambiare di posto e tutto tornerà come prima.

«È davvero bella», dice a Riccardo. «L’allieva che mai avrai», gli risponde. «È come una sorella per me, cretino», dice. «La parentela salverà il mondo», lo secca Nello. Ma vaglielo a dire che non era la parentela il Salvatore del mondo, si era documentato. Nei giorni successivi alla partenza di quel bambino aveva preso il coraggio ed era andato a trovare Domenico, un suo ex allievo che aveva abbandonato tutto per diventare frate. Ci aveva parlato, gli aveva raccontato ciò che era successo: se doveva confrontarsi con qualcuno meglio farlo con un mandatario di Dio e – tra i mandatari – conosceva soltanto lui. Domenico lo ascoltò, gli strinse un polso, disse che doveva fermarsi per qualche giorno: stai qua con noi. Per due mesi fece il maestro di tennis all’oratorio del convento, insegnando quello sport ai ragazzini problematici: anche loro cambiavano, anche a loro accadeva il miracolo quando prendevano la racchetta in mano. Dio ti ha scelto, gli disse Domenico. Io invece rimango sempre lo stesso, biascicò Andrea e per il mese successivo non mise piede sul campo, non fece nulla: tornato a casa, stette da solo. A rimasticare la sua vita, a fare i conti con l’arbitro, mica quello che era a bordo campo, ma quello che Domenico chiamava Dio. «Ma ancora? Prima ridevi ora non più. Ma l’hai sentita Caterina che ha appena dato di stronzo a Riccardo o no? Ma è innamorata di lui, secondo te, o lo stava sfottendo?», gli sta domandando Marta. «Ma che ne so, mi sa che stasera l’unico stronzo sono io», le risponde. Poi fissa il presepe e del presepe fissa la stella cometa e si sente improvvisamente in bilico, come la clessidra che pretende di catturare il tempo. Uno scroscio di risate attraversa i vetri della sala della villa, laggiù in strada la gente si sta divertendo talmente tanto da coprire per un attimo il rumore della musica. Andrea volge lo sguardo verso le candele, Francesca le ha accese a ogni angolo e a lui pare – per un attimo – che quella luce abbia la stessa potenza di quella che da piccolo lo aveva accecato in sogno, quella prima volta che aveva capito di essere in bilico con la realtà. Bill sta abbaiando gioioso a Emanuele, che in quel momento sta giocando proprio col cane. La musica – pensa – gli sembra sbagliata, per un attimo gli suona inopportuna. «Ragazzi, forse vado via prima stasera», dice rivolgendosi improvvisamente a Giulio. Stefano annuisce come a dire che gli sembra un’ottima idea. Fortuna che nessuno di loro sa nulla di quanto gli è accaduto in questi mesi. E fortuna che nessuno riesca a intuire che in realtà non si è alzato per andare in bagno o uscire sul terrazzo. Nossignore, no. Si è avvicinato al presepe, per osservare meglio la stella cometa che non capisce come mai abbia improvvisamente deciso di arrivare da lui, così distante anni luce dalla fede e da Dio, così diffidente verso tutto quello che sa di Chiesa, dove la foschia ha il sapore aspro e la forma fumosa dell’incenso. Così perfettamente a suo agio a scoprirsi – gli è capitato di recente e non voleva crederci, si rifiutava – a mangiare accanto a un gruppo di frati, che sembravano indossare la gonna piuttosto che il saio. Ma voleva per caso metterselo anche lui a trentotto anni? «Tu come mi ci vedresti con un saio?», gli viene da chiedere a Marta, urla per farsi sentire. «Certo che ne hai di fantasie sessuali strane, tu», gli risponde berciandogli nell’orecchio, poi sorride.

Andrea torna a pensare a Davide, chiamerà sua madre e – decide – andrà a trovarlo molto presto. Vuole giocarci un’altra partita, forse suderà un’altra stella cometa.

E al solo pensiero gli capita di osservare ancora quella che ha di fronte, proprio alla sommità della capannuccia del presepe. E il tempo gli appare in equilibrio.

(continua in libreria…)

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