Nel thriller “Prima della rivolta”, Michele Turazzi ritrae una Milano stravolta dal sovrappopolamento e dalla crisi climatica. In questo contesto apocalittico si svolgono le indagini del commissario capo Alberto De Santa, volte a far luce sulla morte di un imprenditore membro della Chiesa dell’Apocalisse, la nuova religione dominante – Su ilLibraio.it un estratto

2045, Milano. La metropoli è stravolta dal riscaldamento globale: il mare si affaccia minaccioso alle coste e le giornate torride si alternano a violenti acquazzoni. La sovrappopolazione, risultato di una spinta migratoria imperante, ha scisso la città e gli scontri sono all’ordine del giorno.

È in questo contesto che Michele Turazzi ambienta Prima della rivolta (nottetempo), noir distopico che racconta le indagini del commissario capo Alberto De Santa. L’autore, classe ’86, co-fondatore dell’agenzia letteraria Pastrengo e membro della redazione della rivista culturale La Balena Bianca, ritrae un futuro prossimo trasfigurato dal cambiamento climatico, dal sovrappopolamento delle città e da fazioni politiche in continua lotta tra loro.

Prima della rivolta Michele Turazzi

Il romanzo è ambientato in una Milano trasfigurata proprio dall’impatto del riscaldamento globale e dalla sovrappopolazione. La metropoli è scissa politicamente: da una parte gli Antagonisti, che propugnano il socialismo, dall’altra i Frontisti, fieri sostenitori del sistema capitalistico. Nel mezzo, un’informe massa di persone che punta soltanto alla sopravvivenza. La Digos, organismo autonomo atto al mantenimento dell’ordine pubblico, supervisiona tutto quanto.

Proprio in questo contesto alternativo hanno luogo le indagini di Alberto De Santa in merito alla morte di Renato Valsecchi, imprenditore, filantropo e membro della Chiesa dell’Apocalisse, la nuova religione dominante. Il commissario, appena tornato nella metropoli dopo un esilio sulle Alpi durato cinque anni, si scontra con una città molto diversa da quella a cui era abituato…

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto:

(…) Il commissario capo Alberto De Santa avvicinò il tablet allo scanner della postazione di controllo, il sistema informatico della questura di via Fatebenefratelli riconobbe la sua identità digitale e la porta sull’altro lato del cubicolo si spalancò senza un fruscio. Prima di attraversarla, gettò un’occhiata dietro di sé, oltre l’arco d’ingresso: il corteo si era disperso e aveva lasciato una scia di lattine di birra e volantini, sacchetti compostabili e manifesti stropicciati. Alcuni agenti della Digos stazionavano in mezzo alla carreggiata, mentre sopra di loro galleggiava un unico drone, completamente immobile. Quando si fece annunciare, il piantone alla reception gli disse che il vicequestore Guerri lo stava aspettando in ufficio, e fu lì che andò, due piani più in alto. Un abbraccio, qualche convenevole, poi il suo superiore lo fece accomodare, cominciando a parlare. E adesso eccolo qui, il De Santa, seduto su una poltroncina ergonomica di pelle veg davanti alla scrivania del numero due di Fatebenefratelli.

“Alberto,” disse il vicequestore a un certo punto. “Sei con me?”

Due chiazze nere di sudore gli bollavano la camicia bianca in corrispondenza delle ascelle, mentre dal colletto abbottonato spuntava un collo taurino, per il resto era come sempre elegantissimo: i pantaloni di poliestere traspirante esibivano una riga perfetta, i capelli impomatati all’indietro non avevano un filo fuori posto.

“Dove vuoi che sia?”

“Sarà sarà, ma a me sembra di parlare da solo”.

“È il condizionatore che mi distrae. Perché fa tutto questo rumore?”

Il Guerri si alzò, facendo quasi gemere la poltroncina.

“È mezzo rotto. È da una settimana che aspetto il tecnico, ma in questa città ormai sono più rari loro delle automobili. A proposito,” disse, e sfiorò con un dito l’auricolare che portava all’orecchio destro. All’istante, il display del tablet sulla sua scrivania si accese. “Agente Pessina, a che punto è la tua missione?”

Il vocale di risposta arrivò in pochi secondi e, anche se non poteva sentirlo, il De Santa capì dall’espressione del vicequestore che non si trattava della risposta giusta.

“Questo Pessina non riesce a trovare nemmeno un tecnico per riparare l’aria condizionata,” gli disse poi il Guerri. “Hai visto a che punto siamo arrivati? E pensa che il nostro lavoro sarebbe proprio quello di cercare la gente. Ti eri abituato bene tu, lassù in montagna”.

“Come clima non potevo lamentarmi. Peccato che non fosse una vacanza”.

“Le rotte alpine sono una priorità, lo sai”. Il Guerri allungò le braccia sulla scrivania, un piano di cristallo su tre esili gambe d’acciaio cromo satinato, ma non tornò a sedersi. “Tra le frontiere chiuse e il bel mondo che se ne è andato in alta quota con i domestici al seguito, è inevitabile: loro se la spassano e noi dobbiamo tenere gli occhi aperti. Hai fatto un ottimo lavoro in questi anni”.

“Già,” fece lui.

“Alberto, sei stato trasferito a Pieve di Cadore perché avevamo bisogno di gente in gamba lassù. Serviva qualcuno che mostrasse al corpo locale come si lavora, i metodi moderni e tutte quelle stronzate che vi insegnano ai corsi di aggiornamento. È stato l’unico motivo del tuo trasferimento”.

“Non è quello che ho sentito dire io”.

“E tu lascia stare le chiacchiere. Se dovessi fidarmi di tutti i pettegolezzi su di me non riuscirei neppure a guardarmi allo specchio,” gli rispose il Guerri scuotendo una mano. “Sono io il tuo superiore diretto e so io quello che è successo. E poi ormai è acqua passata, sono riuscito a farti tornare in città ed è l’unica cosa che conta. Sei d’accordo con me?”

Il De Santa annuì, poi, stanco di fissare una poltroncina vuota, si alzò in piedi a sua volta. Quando si avvicinò alla finestra, fu costretto a socchiudere gli occhi per l’intensità della luce che filtrava dall’esterno.

“Bene. Allora tirati via quella faccia sconsolata e torna a fare il tuo lavoro”. Il Guerri lo raggiunse e indicò con un cenno del capo la vetrata: sotto un sole implacabile, quasi rossiccio, gli agenti della Digos prendevano le generalità degli ultimi manifestanti, ragazzi troppo lenti o inesperti per cogliere il momento in cui l’unica opzione è correre via. “Ci tengono d’occhio, Alberto. In molti non vedono l’ora di ristrutturare la polizia dalle fondamenta e anche giù a Roma c’è chi è della stessa idea”.

“Roma esiste ancora?”

“Sempre più malconcia ma esiste,” fece il Guerri, e sul suo viso si accese una ruga in più. “Non pensavo di dovermi sorbire tutto questo, dopo quarant’anni di carriera e a tre dalla pensione. Hai idea di cosa succederebbe qui se tutto passasse in mano alla Digos?”

“Me lo posso immaginare,” rispose lui. “Ma non dovrei preoccuparmene troppo. Se così fosse, sarei il primo a essere mandato a casa. Meglio non pensarci, altrimenti mi conviene dare subito le dimissioni e imparare daccapo un nuovo lavoro”.

“O forse sono io a vedere le cose più nere di quello che sono, dicono sia normale quando s’invecchia. Arrivare a sessantasei anni, con una carriera come la mia, mai un richiamo, solo medaglie, e doversi comunque sentire il fiato sul collo…” Il Guerri sospirò. “Ma sto divagando. Tu adesso devi solo goderti il ritorno a casa”.

“Casa,” borbottò il De Santa, senza distogliere lo sguardo da via Fatebenefratelli, dagli agenti della Digos, dai monopattini che sussultavano sull’asfalto, dalle palazzine ottocentesche che gettavano la loro ombra sull’acqua del Naviglio Interno trasformandola in una lamina solida e nera. “Ti dirò, a volte mi sembra di non riconoscerla più, questa casa”.

“Non è semplice dopo cinque anni passati lontano. Anche a me è successo, quando sono stato distaccato in Sicilia, e non ero mica giovane come te, allora. I primi tempi ero convinto, letteralmente convinto, che niente sarebbe tornato uguale a prima. Guardavo mia moglie e non capivo chi avevo di fronte, mi sembrava una sconosciuta, una donna che non avevo mai visto. Ma il tempo passa, le cose si aggiustano, non ci si pensa più. Come vedi, sono ancora qui”. Il Guerri sorrise e si diede una leggera pacca sul ventre, trattenuto a stento dalla camicia abbottonata. Tornò subito serio. “Ho bisogno dei miei uomini migliori”.

“Vedrò cosa posso fare”.

“È già qualcosa,” rispose il Guerri.

“Se è tutto, ti saluto e me ne torno a casa”. Il De Santa fece per avvicinarsi alla porta. “Ho un buon numero di scatoloni a cui pensare”.

“Alberto,” lo bloccò il vicequestore, “prenditi qualche giorno prima di ricominciare. Vuoi salutare i tuoi vecchi amici? Non mi importa, ci mancherebbe che un commissario capo non possa vedere chi gli pare. Quello che mi interessa è che ti metti il passato alle spalle: basta con i rimpianti e con le recriminazioni. Voglio che a metà della prossima settimana arrivi in questura come nuovo, prendi possesso del tuo ufficio, ti presenti alla squadra, fai un bel discorso motivazionale e tutte quelle cose che piacciono ai giovani. Ci siamo intesi?”

Il De Santa scrollò la testa su e giù, un movimento appena accennato che il Guerri sembrò farsi bastare.

“Dei capelli non ti dico niente, ormai ho perso le speranze, ma fammi almeno il piacere di comprarti dei vestiti nuovi”.

Lo sguardo gli scivolò sulla t-shirt: anche se un tempo era stata nera, adesso esibiva tutte le tonalità del grigio, dal tortora al cenere. Appena più in basso, i bermuda con la doppia coppia
di tasconi laterali erano chiusi in vita con un legaccio di stoffa multicolore e si muovevano appena, larghi e stinti, sotto il getto dell’aria condizionata.

“Però mi faccio la barba ogni mattina,” disse.

Il Guerri sospirò. “Ora torna pure ai tuoi scatoloni. La questora Salvemini mi vuole nel suo ufficio, e di sicuro non la farò aspettare per parlare con te di moda uomo”.

“Un’ultima cosa,” fece il De Santa prima di uscire. “In questa città si può ancora fumare da qualche parte o è vietato dappertutto?”

“Sono sicuro che con il tuo talento investigativo riuscirai a scoprirlo,” disse il Guerri. Poi il suo viso si distese. “Bentornato, Alberto”.

(continua in libreria…)

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