Crocifisso Dentello, autore di “Tuamore”, torna in libreria con “Scuola di solitudine”, una testimonianza toccante della vita “dietro di sé” nello sguardo sincero di un protagonista che non si è mai sentito un vincitore ma che allo stesso tempo non ha mai smesso di combattere… – Su ilLibraio.it un estratto dal libro

Crocifisso Dentello, autore di Tuamore (La nave di Teseo, 2022) e La vita sconosciuta (La nave di Teseo, 2017) e collaboratore del Fatto Quotidiano, torna in libreria con Scuola di solitudine (La nave di Teseo): una testimonianza toccante della vita “dietro di sé“, nello sguardo sincero di un protagonista che non si è mai sentito un vincitore ma che allo stesso tempo non ha mai smesso di combattere

Scuola di solitudine di Crocifisso Dentello

Al termine di una presentazione letteraria, l’autore-protagonista viene avvicinato da un uomo che si rivela essere Walter, un suo compagno di seconda media. L’autore dapprima è insofferente, non vuole rievocare un’amicizia “durata quanto un temporale estivo”, ma ben presto l’incontro diventa l’occasione per tornare indietro nel tempo.

Il viaggio nella memoria delinea il ritratto di un bambino e di un adolescente timido e solitario, umiliato da un padre – muratore meridionale sfinito dal lavoro e in perenne difficoltà economica – incapace di accettare la sua diversità, e protetto da una madre troppo apprensiva per lasciargli un autentico spazio di crescita. A scuola l’autore, nell’indifferenza degli insegnanti, è la vittima designata dei bulli della classe, che ne disprezzano l’umiltà delle origini, l’incomprensibile passione per la letteratura e la sostanziale incapacità di essere come gli altri.

Lo scrittore classe ’78 racconta l’amicizia dell’autore con Walter, che sembra spezzare il suo isolamento sociale, ma alla fine del racconto emerge una verità amara e scioccante nella quale la madre amatissima ha fatalmente una parte di responsabilità. Scuola di solitudine è un viaggio sofferto ma inderogabile nel passato per scoprire che anche il troppo amore può ferire.

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Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un estratto:

Walter si è congedato con quella battuta fatale: Ti lascio una storia da raccontare.

Magari lo ha fatto per vanità, sicuro che il suo seme avrebbe attecchito. Magari lo ha fatto perché effettivamente ciò che è successo tra noi, tra il 1990 e il 1991, è stato davvero degno di un romanzo.

Ha intuito che mi aggrappo alla scrittura come un prete all’esistenza di Dio, come un prete che rifugge l’incredulità per non dichiararsi sconfitto.

Temo non mi libererò mai dell’impronta di quegli anni. Tutto ciò che è venuto dopo è la conseguenza di uno strappo consumato in quella terra di mezzo che separa l’infanzia dall’adolescenza.

Mi muovevo per i corridoi della scuola e tra le quattro mura della mia aula con la sicurezza di un cieco ma avrei voluto davvero tenere gli occhi chiusi per sfuggire allo sguardo delle mie professoresse, al sorriso stentato che indossavano come un costume di scena. Avvertivo che la tiepida premura nei confronti di noi studenti era solo un inciampo della loro professione. Avevano scelto di passare la vita dietro a una cattedra ma parole e gesti procedevano per inerzia, rivelando una stanchezza interiore che le tradiva non appena le circostanze imponevano una deviazione imprevista. La vocazione languiva e badavano a conservare al minimo la loro dignità di impiegate dell’istruzione. Spanò, la professoressa di italiano e storia, più si sentiva detestata e temuta e più ne traeva godimento. Non era difficile fiutare che il suo privato, sempre tenacemente difeso, era uno specchio in frantumi. Una bidella un giorno si lasciò scappare che il marito l’avesse mollata a un anno dalle nozze e che lei non si fosse più ripresa. Mi figuravo la sua vita in una fila di diapositive: la festa di laurea in una triste pizzeria con i parenti, la decisione di insegnare. Poi l’affannosa ricerca di un posto, un uomo egoista, il divorzio, le cene solitarie davanti alla tivù, la scelta di puntare tutto sul lavoro e, una volta ottenuta la cattedra come insegnante di ruolo, la scelta sadica di infliggere agli studenti le peggiori torture.

Erano soprattutto i miei compagni di classe che non volevo vedere. Un esercito nemico contro il quale dovevo scendere a patti ogni giorno. Mi sentivo come un prigioniero di guerra, separato anche nella lingua, incapace di comunicare alla pari con
estranei che mi percepivano a loro volta come un estraneo.

Con il resto del genere umano non ho mai avuto granché da spartire.

D’altra parte la scuola è stata da subito la materializzazione di un incubo. Il battesimo della prima elementare brilla nella mia memoria come un evento drammatico. Mia madre, supportata da due bidelle, aveva dovuto letteralmente trascinarmi di peso dall’ingresso della scuola fino alla mia aula mentre mi dimenavo come un vitello al mattatoio. Le bidelle e la maestra, fiaccate dalla mia resistenza, si risolsero a lasciarmi rannicchiato sul pavimento fino al suono della campanella.

Il mio rifiuto del mondo risaliva tuttavia all’asilo. A metà del primo anno suor Angela, esasperata dai continui battibecchi tra me e mio cugino Nunzio, decise di separarci. Uno dei due si sarebbe trasferito nella classe della signorina Paola. Fui io a essere deportato e quella umiliazione, nella mia coscienza sia pure informe, fu la vera linea di demarcazione, il punto esatto nel quale una vita normale cessò per sempre di inverarsi. Paralizzato dalla timidezza, se un bimbo si avvicinava al mio banco smettevo subito di disegnare. Incrociavo le braccia e con la testa china attendevo che si facesse il vuoto intorno per riprendere a esistere. Un trauma che, ripartito negli anni della scuola, si è rinnovato ogni santo giorno. Non ero nato per entrare in comunione con gli altri. Il mio destino era restare confinato in un cantuccio a consumare i miei giorni come un cane randagio.

L’infanzia non mi ha mai messo al riparo dalla violenza. Semmai è stata un apprendistato. Prendeva forma in mio padre quando tornava dal lavoro e rispondeva in modo brusco a mia madre, quando la sollecitava a servire la cena a tavola, quando si lamentava per una qualsiasi sua presunta manchevolezza. Percepivo una tensione pronta a esplodere e che talvolta di fatto esplodeva con le sue rimostranze gridate a squarciagola, con le sue mani grosse di muratore che vibravano sul tavolo come colpi d’accetta.

Una domenica si disfò di un gattino che non potevamo tenere in casa gettandolo dall’auto in corsa. Non sapevo che lo tenesse nascosto tra le gambe nel suo posto di guida. Stavo seduto dietro, ignaro. Vidi questo batuffolo di pelo volare dal finestrino al margine della strada. Odiai mio padre di un odio ferocissimo, impressionato che potesse gettare un animale innocente come faceva con i suoi mozziconi di sigarette.

Ero altrettanto inerme e indifeso. Proprio come i matti di paese. A Molinello, nel mio quartiere, ce n’era uno. Tutti lo chiamavano Stop perché fumava solo sigarette Stop. Appena lo intercettavo cambiavo subito marciapiede. C’era chi simulava un attacco, battendo il piede come si fa con i piccioni. Stop fuggiva spaurito. Assistevo alle crudeli provocazioni dei passanti e restavo sospeso tra terrore e voglia di agire di fronte all’ingiustizia di quegli scherni. Una sera Stop, sessantenne sdentato e lievemente claudicante, si spogliò completamente e prese a correre in tondo gridando frasi sconnesse. Tutti intorno a sghignazzare come iene fintantoché non arrivò un’ambulanza a portarlo via.

(continua in libreria…)

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