Rafaela ha diciannove anni quando raggiunge la città di Strega, sulle Alpi, per lavorare all’hotel Olympic come cameriera. I giorni sono scanditi da una ferrea routine dettata da Rex, Toni e Costas, le tre istitutrici, che insegnano a Rafaela e alle altre ragazze a lavare, cucinare e preparare le camere. Ma gli ospiti tardano ad arrivare… Alla scoperta della (moderna) fiaba gotica di Johann Lykke Holm

Questo libro non si può leggere e basta. Va accompagnato con calici di musica azzurra, sorsi di bosco, morsi di sangue.

Strega (NN Editore, traduzione di Andrea Stringhetti – candidato al premio Strega Europeo), va letto ascoltando Bjork (meglio se Triumph of a heart), i Sigur Rós e i Röyksopp, per creare un tappeto sonoro capace di sciogliersi nelle pagine, che già gocciolano inchiostro e spine; Strega va letto guardando i quadri fiamminghi, strusciandosi le foglie addosso e sognando le foreste di una Scandinavia che non esiste; Strega va letto inumidendosi gli occhi e indossando i vestiti di Rafaela, già dalle prime righe “donna giovane ma decaduta”.

Comprimere questo libro in una trama rischierebbe di snaturarlo e di stringarlo, rischierebbe di farlo passare per qualcosa di ordinario e fin troppo lineare, e non rendere il carattere abbacinante e conturbante di questa favolaccia goticheggiante che è Strega.

Strega non procede con una progressione immediatamente prevedibile o srotolabile, ma va avanti a balzi, salti e burroni, e la lettrice o il lettore devono abbandonare qualunque preconcetto e abbandonarsi alla parata della narrazione.

Johann Lykke Holm non si limita a narrare, ma ci serve, su un piatto di porcellana e su una tovaglia di merletti riccamente decorata e intarsiata, una storia di violenza difficile da digerire.

In Strega, Johann Lykke Holm non è solo una narratrice, ma una vera e propria miniaturista: riesce, a tracciare, con dovizia di particolari, ogni cosa che gravita intorno all’universo mentale di Rafaela e che, proprio per questo, la definisce. Gli ambienti non sono soltanto ambienti, ma proiezioni allucinate dell’habitus mentale di Rafaela; c’è poi una cascata di lenzuola macchiate di latte e sangue, forcine per capelli, mutande di cotone, sonniferi, moquette polverose, luci al neon, mele rosso rubino.

Tutto ciò è correlativo oggettivo della sua fuga, una fuga ordinata e scombinata insieme, che sa di pioggia, latte e calore, di domande che riecheggiano nella tromba delle scale: “Chi sei nel momento in cui lasci la casa dei genitori? Una persona giovane e sola che si avvia verso la vita”.

Ogni cosa è penetrata da un sottotesto vagamente funebre e omicida: ogni cosa è scena del crimine, preparazione di un assassinio e quindi di un lutto.

strega

Rafaela esce di casa e annota ogni cosa che vede per l’ultima volta, fa un inventario poetico e al tempo stesso macabramente kitsch di ogni dettaglio della sua vita, della sua casa, del suo quartiere: la frutta marcita, le caraffe d’acqua, le mani della gente.

Strega non può prescindere dal suo linguaggio sensoriale, ai limiti dell’anatomico, dalla sua lingua onnivora e lussureggiante, alimentare, vegetale, chirurgica e stridente.

Seguiamo il viaggio di deformazione di Rafaela e prendiamo con lei treni che si arrampicano su montagne sempre più alte, mangiamo con lei tozzi di pane e beviamo succo d’arancia nel cartone, e infine arriviamo in un posto in mezzo a una radura bruciante. Avvertiamo l’odore di acqua e capelli bruciati, la puzza della foresta selvaggia, sentiamo come la musica di un’orchestra: un’orchestra di musicisti particolarmente infelici.

La dolcezza del posto, le sue fontane, l’aria rarefatta e le erbe aromatiche, hanno qualcosa di spaventoso e pronto a scattare, come un animale pronto ad azzannare alla giugulare: l’autunno del bosco nasconde, nel suo disegno placido, la minaccia di una stagione pronta ad attaccare un albero dopo l’altro.

Ci troviamo all’Hotel Olympic, dove Rafaela e altre ragazze lavoreranno come cameriere stagionali, il paese che sembra spuntare a valle si chiama proprio Strega, e su di tutto aleggia l’ombra indecifrabile del Monastero.

Tra le ragazze inizia a profilarsi un rapporto simbiotico: vivono insieme, lavorano insieme, rassettano letti, puliscono, dormono insieme e fanno anche gli stessi sogni. Si addormentano come animali stanchi e nudi, i capelli neri rovesciati come inchiostro sul cuscino. Si stringono e s’arroccano attorno a quell’ambiente, funzionano come organismo unico, compatto e pulsante, creano relazioni morbose e salvifiche tra di loro e ogni cosa assume dei contorni tremolanti, liquidi.

Le tre istitutrici, Rex, Toni e Costas, insegnano tutto alle ragazze: insegnano loro a cucinare e preparare camere per ospiti che sembrano non arrivare mai. Lentamente, una paura strana comincia a stillare tra le ragazze, come un morbo: una paura indefinita, ma che avvelena stanze e boschi, che si stampa sulla carta da parati. Le ragazze, come un corpo singolo, procedono a una strana iniziazione e si fanno forza a vicenda, curandosi e salvandosi insieme: passeggiano nei boschi, accendono sigarette, quando dormono non solo fanno gli stessi sogni, ma gli stessi incubi.

Molto ben costruito è il rapporto tra Rafaela e la sua amata Alba, le loro confessioni notturne deliranti, la natura pura e scarna del loro rapporto.

Piano piano, l’iniziazione delle ragazze diventa un vero e proprio addestramento quasi militaresco, le regole si fanno più autoritarie e tutto ciò incide in maniera tangibile sui desideri e i pensieri delle protagoniste. Inoltre, gli ospiti cominciano ad arrivare e una delle ragazze, Cassie, sparisce.

Il romanzo è giocato, più che su una narrazione classica e canonica, su un focus straniante che chiama in causa l’interiorità scorticata e selvaggia di Rafa, ciò che agita i suoi pensieri, ciò che sta dietro le sue palpebre, è tutto è immerso in quest’acqua che diventa sempre più stagnante.

Strega non è una favola ma, come scritto prima, una favolaccia che si nutre di elementi miti, placidi, acquatici e boscherecci; proprio per via del loro carattere innocuo, si risemantizzano di orrore, in maniera antitetica. Strega è un’allegoria della cultura patriarcale, che si nutre di sacrifici rituali che viaggiano nei secoli e conservano la loro carica distruttiva.

Rafa inizia ad allucinare perché, la ricerca dell’assassino di Cassie, diventa una vera e propria presa di coscienza: l’assassino è l’Olympic stesso, con il suo strascico di violenza e devastazione. Rafa è una moderna eroina greca, perché inizialmente sembra adattarsi alle regole e al modus vivendi dell’albergo, ma riesce a conservare un distacco necessario per svincolarsi e fuggire, e trovare quindi una possibilità di fuga. Tutto ciò è metafora di liberazione femminile, è una narrazione onirica e perturbante che smantella il patriarcato e ci fa capire meglio come penetra nella quotidianità, e al tempo stesso ci fa sperimentare quanto sia difficile- e necessario- comprendere e liberarsi di tutte le scorie nocive che abbiamo interiorizzato e che bisogna rimuove.

Strega è il senso di sollievo che noi proviamo, insieme a Rafa, quando si lascia finalmente alle spalle l’albergo, quando cammina nel bosco, arriva a un bivio e si divide dalla sua amata Alba. Nonostante tutto, le foglie continuano a crepitare ancora sotto i suoi piedi.

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