Su ilLibraio.it un estratto da “Niente da perdere”, il nuovo romanzo della premiata scrittrice e giornalista spagnola Susana Fortes

Con i suoi libri, la scrittrice e giornalista spagnola Susana Fortes ha venduto in Italia oltre 200mila copie. Autrice di romanzi premiati e tradotti come Quattrocento e con Il cammino del penitente, torna ora nostre librerie con Niente da perdere (astoria, traduzione di Patrizia Spinato), che ci porta indietro fino al 12 agosto 1979, un giorno che rimarrà per sempre nella memoria di As Covas, un villaggio galiziano non lontano dalla frontiera portoghese.

Perché? Perché quel giorno due ragazzini – i fratelli Hugo e Nico – sono scomparsi, forse annegati nel fiume. E la piccola Blanca, che era con loro, è stata ritrovata da un pescatore dentro una cesta di vimini. In stato di shock, Blanca non ricorda nulla. E le indagini muoiono insieme con la speranza di ritrovare in vita i due ragazzini.

Oggi Blanca vive lontana dalla Galizia, a Copenaghen. Eppure, anche dopo venticinque anni, la tragedia di As Covas non ha mai smesso di riecheggiare – oscura e brutale – nella sua anima. Così, quando i cadaveri dei due fratelli vengono ritrovati in un’area archeologica della zona, il richiamo del passato diventa assordante e la costringe a tornare. Ma gli occhi della donna vedono la realtà in modo molto diverso da quelli della bambina: una realtà fatta di trame sotterranee e di comportamenti ambigui, di reticenze e di sensi di colpa. Arrivare alla verità non sarà facile per nessuno degli abitanti di As Covas, e soprattutto per Blanca. Perché ci sono cose che è meglio non sapere. Perché la verità può rendere liberi. Ma può anche uccidere…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto dal secondo capitolo:

Era sempre stato lì. Nello stesso posto. Il pericolo c’era, ma non era inevitabile né costante. Soltanto una possibilità che, come la maggior parte delle cose della vita, a volte si verifica e altre no. Tutti e tre eravamo scalzi. Era agosto. Nell’aria volavano ovunque quelle piccole sfere pelose che si staccano da fiori secchi come spini. Avevamo lasciato i sandali in fila indiana ai piedi del muretto, insieme ai vestiti, come facevamo sempre, perché una cosa era disobbedire agli ordini, un’altra affrontarne le conseguenze.

Nei paesi lungo il fiume, se non rientravi a casa intero e pronto per un’ispezione era meglio non presentarti affatto. Ogni bambino doveva per prima cosa imparare a nuotare e ad avere cura dei propri vestiti, se non voleva ritrovarsi nei guai.

C’era un punto preciso nel quale l’acqua dolce del fiume si univa a quella spumosa e mossa dell’oceano, così come c’è un punto in cui l’infanzia fi nisce e ha inizio qualcosa di più complicato. Sulla riva opposta c’era il Portogallo. Il fiume era la frontiera, ma per la storia che ci riguarda avrebbero potuto esserci la Danimarca o il Brasile. L’inclinazione dei raggi del sole alle cinque del pomeriggio sarebbe stata diversa in ognuno di quei paesi, ovviamente; forse sarebbero state differenti le tecniche dei pescatori o gli usi locali, ma i fatti sarebbero stati ugualmente irreversibili perché, come sa bene la gente che ci vive accanto, un fiume è sempre un fiume, con buona pace di Eraclito.

Alcune cose dipendono dall’ambiente. Altre no. La famiglia è importante, questo è certo. Nico e Hugo erano fratelli. Dieci e dodici anni. Conoscevano bene la zona. Io no. Ero una ragazzina di città, abituata a camminare sui marciapiedi e ad attraversare ai semafori, come Dio comanda.

Nico mi era simpatico, aveva due belle orecchie minuscole e rosse, era mingherlino, pieno di lentiggini e con i capelli ricci; quando parlava si impappinava per via dell’apparecchio ai denti. Adorava i biscotti Príncipe, ma era pronto a condividerli. Hugo aveva un’indole diversa, si muoveva attraverso i campi di mais con passi lunghi e dinoccolati.

Pensavo che un giorno si sarebbe trasformato in un cervo o in qualcosa di simile.

Vivevano a due passi dalla casa dei miei nonni, al bivio del lavatoio. Quell’anno mi avevano mandata là per le vacanze estive perché da noi era in corso una guerra, il genere di conflitto capace di esplodere in qualunque famiglia, nel momento più impensato. Non importa di che tipo: una guerra è una guerra.

“Sarà meglio che la bambina vada a stare qualche giorno in paese,” aveva detto mio padre.

Così avevano infi lato le mie cose in una piccola valigia impermeabile. Zio Fran, il fratello minore di mio padre, era venuto a prendermi con il Land Rover giallo, aveva imboccato l’autostrada e poi una provinciale piena di buche, punteggiata di papaveri su entrambi i lati, puntando a ovest.

“Ti piacerà, Blanquita,” mi aveva detto.

E così era stato, ovvio. Non avrebbe potuto essere altrimenti.

Per una bambina di otto anni e mezzo di La Coruña quello era un paradiso lontano, perduto lungo la ría di Vigo, dove il vento a volte era salmastro e altre no. Ricordo i colori dell’arcobaleno rifl essi in una macchia d’olio sul pelo dell’acqua, accanto all’imbarcadero; non mi stancavo mai di guardare le barche. C’erano natanti da diporto con bandierine colorate, rimorchiatori che si lasciavano dietro una scia di onde verdi, gamelas* con la prua squadrata, piccole barche da pesca con le ceste e le reti a maglia, lance velocissime che correvano dietro i propri aff ari. Tutti guidati dalla corrente.

Ho ricordi isolati che nulla hanno a che fare con quanto accadde. Il peso del pane di mais, per esempio; le bottiglie con la candela infi lata nel collo, nel caso saltasse la luce; una donna di nome Dosinda che al mattino arrivava con un bidoncino di latte in bilico sulla testa, senza farne cadere una goccia; il giorno in cui imparai a fi schiare; i cardini del cancello di ferro verde che stridevano quando Nico e Hugo mi venivano a chiamare, un suono sempre denso di emozioni, perché annunciava un’avventura.

Ricordo alcune cose. Altre invece sono scomparse per sempre, nonostante tutti i miei sforzi per riportarle alla mente. All’inizio facevo di tutto per rispondere alle domande del tenente della Guardia civil a capo delle indagini, un uomo alto che rispondeva al nome di Venancio Ortega, gli occhi grigi di pazienza. Poi, nei lunghi mesi successivi, mi sforzai di rispondere all’équipe di psicologi dell’infanzia dell’ospedale di Vigo. In seguito, quando tutti ormai evitavano di parlarne in mia presenza, come se fosse un tabù, continuai a cercare di ricordare da sola, per andare avanti.

Ma c’era un ostacolo.

Ero piccola. Non capivo che cosa fosse successo. Nessun bambino potrebbe capire una cosa del genere. Provavo a scandagliare la memoria, ma l’unica cosa che riuscivo a trovare era la sensazione di essere cieca. Come quando entri in casa dopo essere rimasto per molto tempo al sole e per qualche istante in cui tutto vacilla ti sembra di guardare il negativo di una fotografi a. È l’immagine che più si avvicina alla realtà. Un negativo. Non sapevo che cosa volesse dire.

Come potevo?

C’era una festa, da qualche parte. Le esplosioni dei botti lasciavano una traccia di fumo bianco nel cielo, insieme a un’eco lontana delle gaitas.**

Quei suoni sono ancora lì, dal primo all’ultimo.

Tre bambini sani, abbronzati e sorridenti. Il più grande con una borraccia a tracolla, il piccolo con uno zaino sul quale era stampato il muso di Scooby-Doo. Nello zaino c’erano la merenda, una torcia a pile marca Júpiter e un binocolo di plastica. Oltre a corde di diversa lunghezza, un retino per pescare le anguille e un pacchetto di biscotti… Correvano, saltavano i cespugli, avevano fi li d’erba tra i capelli, si spruzzavano con l’acqua lungo la riva, in una pioggia di gocce minuscole e splendenti, tra risate e fi nte lotte, nuotavano lungo quella riva infi nita verso i loro sogni, o i loro incubi.

“Me lo disegni?” mi aveva chiesto il tenente Ortega. Era uno di quegli uomini maturi senza fi gli abituati a parlare solo con altri adulti, che quando hanno a che fare con i bambini ritengono opportuno cambiare voce. Mi aveva messo davanti un foglio bianco e una scatola di pastelli a cera Crayola in cui c’erano l’oro, l’argento e il bronzo. Scelsi l’ultimo. Tracciai meglio che potei un cerchio al cui centro si univano tre spirali, decorandolo con onde sovrapposte e puntini sparsi.

“Che bella!” disse lui. “Sembra una medaglia, o una moneta. L’hai trovata tu?”

“No, è stato Hugo.”

Eravamo in una stanza dalle pareti verdi, su uno dei quali era appesa una foto di re Juan Carlos e della regina Sofía. C’era una fi nestra da cui iniziava ad aff acciarsi il buio; una pioggia sottile batteva sui vetri.

Parlavo sempre con rispetto di Hugo; non per niente era il capo. Lui sì che era bravo a disegnare. Conosceva ogni angolo del lungofi ume: i sentieri che si aprivano con la bassa marea, i posti migliori nei quali pescare, le grotte dei contrabbandieri, il vecchio arsenale navale, il masso degli avvistamenti, dal quale si scorgeva l’isola in mezzo all’estuario – con le creste nere di una fortezza portoghese – chiamata A Insua. La nostra Isola che non c’è.

Quell’estate era tutto una cosa sola: leggere i libri della Banda dei Cinque, nuotare, correre in bicicletta, giocare agli investigatori, andare a caccia di tesori. Le vacanze erano una ricerca incessante di qualcosa, una strada verso una destinazione, poco importava quale. Hugo avanzava lungo i sentieri con estrema cautela, per non rischiare. Quando era particolarmente concentrato sollevava il labbro superiore in un modo tutto suo. Era molto diverso da Nico, più alto almeno di due palmi, più slanciato e temerario, con la frangia liscia e una curiosità innata per tutto. Sapeva un sacco di cose.

“Di che genere?” mi chiese il tenente.

“Non so… cose.”

Era il momento degli interrogatori. Cercavano indizi…

 

* Tipica imbarcazione da pesca galiziana, utilizzata specialmente nella ría (ossia una sorta di fi ordo) di Vigo. [N.d.T.]

** Tipico strumento musicale della Spagna nordoccidentale, molto simile a una cornamusa o a una zampogna. [N.d.T.]

(continua in libreria…)

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