Un padre, una figlia e la questione apicale della filosofia platonica – la questione del Bene – sono i protagonisti del nuovo libro di Simone Regazzoni…

Quanto è vero! In noi sopravvive la nostra fanciullezza.
Che dico? Per una legge riconosciuta e dimostrata dal Haeckel,
sopravvive in noi la fanciullezza del genere umano.
da Elementi di letteratura di Giovanni Pascoli

Un padre, una figlia e la questione apicale della filosofia platonica – la questione del Bene – sono i protagonisti del nuovo libro di Simone Regazzoni.

Il titolo (Mia figlia, la filosofia. La forza dell’infanzia e della paternità), nell’accostamento di una relazione privata, affettiva, “piccola” come un essere appena venuto al mondo, alla “grande” e universale aspirazione alla conoscenza, propria della nostra specie, prepara al dialogo inedito – e commovente per la sua vivezza – tra idee e ambiti che il senso comune tende a pensare separati e incommensurabili: da una parte, una bambina intenta ai suoi giochi e un padre che se ne prende cura nel quotidiano, in un appartamento, durante una passeggiata; dall’altra, i grandi interrogativi del pensiero umano, il mistero dell’esistenza, le origini e la struttura del cosmo, l’ontologia, la fisica, la metafisica.

Mia figlia, la filosofia

Questa separazione rientra nella serie di separazioni strutturanti il modello interpretativo della realtà elaborato dal soggetto cartesiano, che ha proiettato il suo ambizioso sogno di ordine sulle cose. Pensiamo, esemplarmente, alle opposizioni io-mondo, mente-corpo, cultura-natura, con cui la nostra riflessione deve ancora oggi confrontarsi. Così il pensiero razionale dell’occidente moderno condiziona la visione dell’infanzia come fase di temporanea imperfezione destinata a risolversi, nel corso di un processo evolutivo normale, nell’età adulta, contraddistinta dalla fine delle fiabe e dei giochi e dall’inizio dei ragionamenti e delle occupazioni serie e sensate, dell’applicazione della logica consequenziale al comportamento.

Eppure, questo modello ci appare oggi quanto meno problematico. La sua inadeguatezza, in particolare, si rivela nella misura in cui esso tende a respingere fuori di sé quello che non può capire e dominare razionalmente, attribuendogli insignificanza o inferiorità. Simone Regazzoni, invece, confessa la propria fascinazione per il personaggio di Socrate quando inciampa sulla definizione di amore come filosofo e dichiara, turbato, «io non capisco» (Simposio 206b). È, in effetti, a partire da una difficoltà radicale, da una vertigine di fronte alla profondità insondabile del proprio oggetto (e del proprio amore), che l’autore si muove verso una ricomposizione dialogica tra mythos e logos, tra tempo del racconto per immagini, del gioco che vuole realizzare il reale, e tempo del pensiero che distingue, che definisce, che cerca di dotarsi di strumenti per leggere le esperienze e orientare le azioni umane. Per farlo, l’autore sceglie di partire da sé, di pensare dal corpo e attraverso il suo corpo, finendo con lo scoprire – e con il farci riscoprire – che la filosofia parla di noi.

Le parole chiave di questo racconto personale, scritto con nitore, sono suggerite da Platone nella sua ponderosa Repubblica, quando si tratta, per l’appunto, del bene, il principio all’origine delle idee che stanno fuori dalla caverna. Ma del bene non si può parlare direttamente, ammette Socrate. È un passaggio al limite che richiede una mediazione. Per dire il bene, inafferrabile umanamente, Socrate parla della filosofia, che è il «figlio» o la «figlia» (in greco ekgonos) del bene (Repubblica 506d-e). La filosofia è il «parto» (tokos in greco) del bene. Socrate pratica segretamente il mestiere dell’ostetrica, come sua madre.

Così, la metafora attribuita a Socrate si incarna in una bambina, diventando l’oggetto dell’interrogazione costante di un padre filosofo, «amante della sapienza», del bene che, platonicamente, sta oltre e per questo eccede gli strumenti della comprensione umana. E l’amore del bene è sua figlia di fronte a lui, nella sua assoluta alterità. Quest’ultima diventa esprimibile solo nelle immagini di un racconto, nella pratica di un gioco, nella parola e nel gesto scambiati, condivisi.

E in questo gioco, che è anche il libro stesso con le sue connessioni inattese, si passa da Eraclito alle anime giapponesi, da Kore, la «fanciulla» alle origini dei culti della Grecia primordiale, alle bambole, in una narrazione a pannelli che scorrono lungo le guide di un argomentare limpidamente condotto, sostenuto da una meraviglia di fronte alle cose che è la meraviglia del padre – e del fanciullo – intento a scoprire sua figlia come un mondo che si dischiude per la prima volta, e infinite volte, ai suoi occhi. E il lettore si meraviglia con loro e di loro, fino al turbamento.

È la filosofia dell’infanzia come forma di vita e potenza di vita non addomesticabili dalla razionalità, dove l’infanzia non è la sterile memoria di un passato perduto ma una condizione di vita e di pensiero che ci attende, se sappiamo accordare con essa noi stessi e il nostro linguaggio, per introdurci a una nuova – e quanto mai necessaria – visione del mondo come tutto vivente.

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L’AUTRICE – Francesca Sensini è nata a Genova nel 1974. Dopo una laurea in Lettere classiche, è partita per la Francia, dove ha insegnato in varie università e ha continuato i suoi studi, dottorandosi in Italianistica all’Università Paris-Sorbonne. Ha vissuto a Parigi per dieci anni, per altri tre sul lago del Bourget, tra i monti della Savoia, e ora è tornata a vedere il mare, a Nizza, dove è professoressa associata di Italianistica all’Università Côte d’Azur.

Comparatista di formazione, tra i suoi amori più grandi vi è quello per il Mediterraneo antico, e per la Grecia in particolare, con i suoi miti. È infatti ostinatamente convinta che quelle favole così lontane mettano in gioco la nostra vita di moderni e che tra gli scogli di quel mare, insieme agli astutissimi polpi, si nasconda il senso del sacro che abbiamo perso. Con Ponte alle Grazie ha pubblicato La trama di Elena.

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